Renzi all’assalto di Tajani per l’eredità politica ed elettorale di Berlusconi

         Proprio nel giorno in cui Antonio Tajani da vice presidente e reggente diventa segretario di Forza Italia e si apre anche formalmente il dopo- Berlusconi nel partito avviato verso il congresso dell’anno prossimo, Matteo Renzi lo attacca dalle colonne del “suo” Riformista dandogli del “timido” sul fronte della riforma della giustizia. Che interesserà pure ai cittadini meno degli scioperi nei trasporti -come insinua una vignetta di Emilio Giannelli sulla prima pagina del Corriere della Sera- ma costituisce il maggiore tema del dibattito politico.

         Sotto il titolo “Il prezzo della libertà” Renzi scrive dall’alto o dal basso, come preferite, del suo terzo polo coll’eterno dissidente Carlo Calenda che si possono pure comprendere le difficoltà nei rapporti tra i fratelli d’Italia di Giorgia Meloni e i leghisti di Matteo Salvini, che vivono male la stagione del garantismo provenendo entrambi da un passato giustizialista, forcaiolo, manettaro e quan’altro. Ma “la vera sorpresa è Forza Italia…contro Forza Italia”, scrive l’ex presidente del Consiglio lamentando una certa “timidezza” di Tajani. Che -scrive ancora Renzi- “non nasce solo dal carattere accomodante ma soprattutto dalla paura di disturbare il manovratore, cioè la premier: paura che dalle parti di Forza Italia è diventata ormai la bussola per qualsiasi decisione politica”.

         Unita a una “lettera” diffusa ieri al suo pubblico internettiano per difendere la buonanima di Berlusconi dai tentativi ancora in corso alla Procura di Firenze di coinvolgerlo nelle stragi mafiose di una trentina d’anni fa come mandante, interessato,  beneficiario politico e quant’altro, avendo vinto le elezioni del 1994 nel clima creato da quegli eventi, la sortita di Renzi segna il rilancio della sua neppure tanto nascosta ambizione di raccogliere l’eredità elettorale del Cavaliere in concorrenza con Tajani oggi o chissà con chi altro domani.

         Il guaio di Renzi, in questo assalto all’eredità di Berlusconi come un nuovo “royal baby”, dopo la prima edizione immaginata e scritta da Giuliano Ferrara sul Foglio dei tempi in cui lo stesso Renzi era presidente del Consiglio; il guaio del senatore toscano, dicevo, è che la “timidezza” di Tajani, pur apparendo chiara a lui, sia contraddetta dalla cronaca, diciamo così.  Proprio oggi Il Fatto Quotidiano titola che “anche sulla mafia”, oltre che sull’abolizione del reato di abuso d’ufficio, “Nordio e FI se ne fregano del no del Colle”. Un no peraltro che a proposito della cosiddetta “rimodulazione” del reato di concorso esterno in associazione mafiosa propostasi dal guardasigilli è stato condiviso per conto della Meloni dal suo principale sottosegretario a Palazzo Chigi Alfredo Mantovano ma decisamente rifiutato da Tajani. Il quale si è allineato a Nordio, come anche sulla separazione delle carriere fra pubblici ministeri e giudici. Di concreto e reale rimane quindi solo la volontà o l’interesse di Renzi di contrastare la leadership forzista di Tajani, a prescindere.

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Il traffico sulla giustizia al Quirinale nell’incontro fra Mattarella e Meloni

         Va bene che “il fumetto è divenuto arte di governo” in una “politica delle nuvolette”, come ha scritto sul Foglio Giuliano Ferrara nell’augurabile consapevolezza che vi contribuisce con le cronache e i retroscena anche il suo giornale. Ma ho la sensazione che si sia davvero esagerato riferendo dell’incontro di ieri al Quirinale tra il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, dopo la riunione del Consiglio Supremo di Difesa svoltasi all’indomani del vertice della Nato a Vilnius.

         Dei “dieci minuti” dedicati alla giustizia dell”’ora scarsa” di colloquio – insufficienti, come ha avvertito Marzio Breda sul Corriere della Sera per la “troppo bollente materia e i toni del conflitto tra governo e magistratura”- si trovano sui quotidiani le versioni più disparate. Si passa dalla “frenata” di Mattarella annunciata dallo stesso Corriere alla più cauta “mediazione” attribuitagli dal Secolo XIX in una posizione quindi di equidistanza fra le due parti, per quanto preceduta da un incontro di conforto o sostegno avuto al Quirinale dal capo dello Stato con i vertici della Corte di Cassazione.

         L’Unità di Piero Sansonetti si è avventurata ad attribuire a Mattarella, sempre nel colloquio con la premier, queste parole in tanto di titolo sulla prima pagina a proposito delle critiche, attacchi e quant’altri giunti da Palazzo Chigi ad una certa “fascia” della magistratura fiancheggiatrice, a dir poco, dell’opposizione più dura al governo: “Per favore, non morderli sul collo”. Che è cosa alquanto diversa dalla “strigliata” o “gelata” annunciata dal Fatto Quotidiano con particolare riferimento all’abolizione del reato di abuso d’ufficio contenuta in un disegno di legge alla firma proprio del capo dello Stato per l’autorizzazione di rito all’accesso parlamentare.

         Dove non arrivano i retroscena scritti si avventurano i fotomontaggi, come quello del Fatto che traduce il proposito annunciato dal ministro della Giustizia Carlo Nordio di una “rimodulazione” del reato di concorso esterno in associazione mafiosa in una sostanziale solidarietà all’ex senatore Marcello Dell’Utri, a suo tempo condannato proprio con questa imputazione. Un progetto peraltro, questo del guardasigilli, su cui è caduta come una scure la precisazione del magistrato e principale sottosegretario della Meloni a Palazzo Chigi, Alfredo Mantovano, che non rientra nelle “priorità” del governo.

         Nordio, dal canto suo, ha incassato riconoscendo che la materia non fa parte del programma concordato fra i partiti del centrodestra, anche se sta molto a cuore di Forza Italia, ma ha avvertito in una intervista al Corriere che non intende “fermarsi”, e forse neppure rallentare, sulla strada della separazione delle carriere fra pubblici ministeri e giudici, ben condivisa dalle componenti della maggioranza e dal cosiddetto terzo polo, o di quel che ne rimane al netto degli scontri continui fra Carlo Calenda e Matteo Renzi.

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La Meloni divide i giornali nella lettura dei suoi messaggi da Vilnius

         Alla faccia della “retromarcia” nei rapporti tesi con i magistrati attribuita a Giorgia Meloni, sia pure in seconda pagina, dal Riformista di Matteo Renzi. Che è pronto sia a saltare in groppa alla premier sia, quando gli serve, a lamentarne ripensamenti, indecisioni, contraddizioni pronto e a promettere più o meno esplicitamente agli elettori del più o meno fantomatico centro che lui, al suo posto, saprebbe fare meglio e di più. Solo se l’ex presidente del Consiglio riuscisse davvero a decollare col terzo polo, magari liberandosi di quella zavorra che ogni tanto mostra di considerare, ricambiato, il fratello-coltello Carlo Calenda.

         “Meloni riaccende lo scontro tornando ad accusare i magistrati di fare politica, titola La Stampa con gli stessi occhiali della consorella Repubblica. Che registra il “non ci fermeremo” della Meloni mentre il guardasigilli Carlo Nordio annuncia o conferma, come preferite, l’intenzione di “riscrivere” pure “il concorso esterno mafioso”.

         Anche sul più prudente Corriere della Sera – con “i paletti” attribuiti alla premier come per volere farle delimitare lo scontro con la magistratura accusata di fare politica in alcune sue frange, sino ad essersi sostituita alle opposizioni aprendo con largo anticipo la campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento europeo l’anno prossimo- Massimo Franco ha avvertito in prima pagina che certe parole di apparente disponibilità ad abbassare i toni pronunciate dalla Meloni a Vilnius, rispondendo alle domande dei giornalisti dopo la partecipazione al vertice della Nato, “non significano che le tensioni non esistano, né che scompariranno presto”. Magari su consiglio, pressione e quant’altro di Mattarella al Quirinale, dove la premier è attesa per riferire su Vilnius e dintorni. Dove peraltro, incontrando Biden, la Meloni ha potuto completare con la data del 27 luglio la preparazione della sua visita alla Casa Bianca.

         Nelle risposte date ai giornalisti che l’hanno seguita al vertice della Nato Il Foglio ha visto, questa volta non a torto, un po’ di “sassolini” che la premier ha voluto togliersi dalle scarpe. Che peraltro le hanno davvero dato fastidio, come ha raccontato lei stessa spiegando certe smorfie sul viso sfuggitegli mentre parlava. Il principale di questi sassolini è stato sicuramente quello del pur amico, cofondatore dei “fratelli d’Italia” e presidente del Senato Ignazio La Russa. Dal quale si è dissociata come di più non poteva fare, solidarizzando istintivamente con la vittima, per la funzione da lui assunta, sia pure come padre, di giudice assolutorio del figlio minore accusato di uno stupro avvenuto per giunta a casa sua, cioè della famiglia. Per questa dissociazione la premier si è guadagnata la “brava” gridatagli sull’Unità da Piero Sansonetti generalmente severo e critico nei suoi riguardi, soprattutto a causa della sua posizione fortemente atlantista sulla guerra in Ucraina.

Stefania Craxi difende il padre e finisce nella posta del Corriere della Sera

Vi racconto la storia di una curiosa polemica -vi spiegherò poi perché curiosa- trovata fra le pagine del pur prestigioso, autorevole, diffuso e quant’altro Corriere della Sera. Nei cui riguardi Vittorio Feltri ha scritto anche di recente che i giornalisti si dividono fra chi vi ha lavorato, lui compreso naturalmente, e chi avrebbe voluto lavorarvi non riuscendoci.

         Mercoledì 5 luglio scorso il turno dell’editoriale spetta al famosissimo e apprezzatissimo Angelo Panebianco, che ragionando fra “storia e futuro” si occupa dei problemi non pochi né facili del Pd guidato da Elly Schlein in tempi fortunati non più per la sinistra ma per la destra.

         Al professore scappa di scrivere con la mente rivolta al passato, pur non volendosene compiacere, per carità, che “il partito comunista, senza possibilità di andare al governo, fu la forza dominante dell’opposizione durante la Guerra fredda”. E che “gli esperimenti socialdemocratici (da Saragat a Craxi) volti a ridimensionarlo fallirono”.

         Pur o proprio perché abituale lettrice di Panebianco, e “sovente” d’accordo con le sue “analisi” e simili, la senatrice di Forza Italia e presidente della Commissione Esteri Stefania Craxi ha qualcosa da ridire sul fallimento attribuito al padre Bettino. In difesa del quale scrive al direttore per proporre a lui e all’editorialista “un approfondimento”.

         In particolare, Stefania -che chiamo così per i nostri amichevoli rapporti, che onestamente confesso ai lettori- ricorda che “nell’orizzonte” del padre eletto nel 1976 segretario di un Psi che “aveva toccato il minimo storico in termini di consenso elettorale (9,6%) a fronte del picco fatto registrare dal Pci di Berlinguer (34,4%)” si profilò “la sfida più difficile”. Che fu quella di “emancipare il socialismo italiano dalla condizione di parente povero del comunismo, restituendogli dinamismo programmatico e centralità politica”. Una sfida destinata, fra l’altro, a portarlo a Palazzo Chigi tra la confessata meraviglia del suo predecessore alla segreteria del partito Francesco De Martino, responsabile di quel misero 9,6% dopo aver promesso che i socialisti non sarebbero più tornati al governo con la Dc senza i comunisti. A noi -confessò De Martino di fronte alle condizioni alle quali Craxi decise invece di riprendere l’alleanza con i democristiani avendo i comunisti all’opposizione- non era mai venuto in mente di rivendicare la guida del governo, neppure quando proprio lui reclamava “equilibri più avanzati” facendo il vice presidente del Consiglio dell’ultradoroteo  Mariano Rumor.

         A Craxi invece toccò Palazzo Chigi fra il 1983 e il 1987 avendo come vice presidente del Consiglio il presidente della Dc Arnaldo Forlani, e alla segreteria della stessa Dc un Ciriaco De Mita che si era fatto eleggere a quella carica l’anno prima  promettendo che non avrebbe mai ceduto la guida del governo al leader socialista affacciatosi metaforicamente a Palazzo Chigi già nel 1979, su imprevisto incarico del presidente socialista della Repubblica Sandro Pertini.

         Ma il problema sollevato da Panebianco -mi direte- è quello dei rapporti di forza fra il Psi e il Pci, non fra il Psi e la Dc. Quelli col Pci -risponde praticamente Stefania Craxi nella lettera al Corriere– furono in effetti più duri da cambiare. Avvenne “una crescita lenta, che scontava il fatto di maturare in un contesto ancora segnato dal peso delle ideologie”, ma fu una crescita “costante fino al dato del 1987, termine dell’esperienza craxiana di governo (14,3%)” dal 9,6 del già ricordato 1976 rimediato con De Martino.  “Dopodichè, il crollo del muro di Berlino e la fine della Guerra fredda -scrive sempre Stefania- rimodularono gli spazi e cambiarono gli imperativi. E Craxi affrontò quel tornante storico decisivo investendo sull’Unità socialista”, sino ad arrivare nelle elezioni politiche del 1992 a un 13,6% distante meno di tre punti dal “partito di Occhetto e D’Alema precipitato al 16%” con un nuovo nome e un nuovo simbolo.  “Il riequilibrio dei rapporti di forza a sinistra fu davvero ad un passo”, mancato per la coincidenza col “ciclone di Mani pulite”, che spazzò la cosiddetta prima Repubblica. Coincidenza diabolica, direi contenendomi con fatica nella contestazione anche di una recente intervista nella quale un generoso Pier Ferdinando Casini ha detto proprio al Corriere che la fine della prima Repubblica “non è stata determinata da Tangentopoli, come molti pensano, ma dalla caduta del muro di Berlino” perché “il mondo che cambiava richiedeva interpreti nuovi”. Ed ha aggiunto: “Inutile vivere di nostalgia: tutto nella vita ha un inizio e una fine”.

         L’aspetto curioso della polemica avviata da Stefania Craxi ricostruendo fatti incontrovertibili è costituito dai tempi e dalla sua collocazione, o evidenza, come preferite. Dalla prima pagina dell’editoriale di Panebianco del 5 luglio -ripeto- si è passati alla pagina 27, quella delle lettere, del 10 luglio.

“Interventi e repliche” è il titolo sotto il quale si è trovato sistemato l’intervento appunto di Stefania Craxi sugli “esperimenti  socialdemocratici”. Ma di repliche di Panebianco, o del direttore del Corriere, o del curatore della posta del giornale pur più diffuso e autorevole d’Italia non si è vista neppure l’ombra. Spazzata via anche questa dal “ciclone di Mani pulite” non ancora passato, perdurando il “brusco cambiamento” nei rapporti intervenuti allora fra la politica e la giustizia, secondo la denuncia mai sufficientemente ricordata di Giorgio Napolitano al Quirinale nel decimo anniversario della morte di Bettino Craxi in una lettera alla vedova diffusa integralmente dalla Presidenza della Repubblica. Un cambiamento dal quale anche Giorgia Meloni e il suo guardasigilli Carlo Nordio, e forse anche Sergio Mattarella dal Quirinale, stanno sperimentando quanto sia difficile tornare indietro per ristabilire la normalità immaginata dai costituenti 75 anni fa.

Pubblicato sul Dubbio

I numeri buoni di Gorgia Meloni e quelli meno buoni del suo partito

         I numeri personali di Giorgia Meloni, col 40,6 per cento di fiducia popolare appena rilevato dall’istituto di ricerca di Alessandra Ghisleri, che ne riferisce oggi sulla Stampa, continuano ad essere buoni anche dopo la polemica da lei aperta contro “le frange” della magistratura fiancheggiatrici o addirittura sostitutive delle opposizioni nella lunga campagna elettorale per il rinnovo, l’anno prossimo, del Parlamento europeo. Polemica della quale, a leggerne i critici nelle cronache e nei commenti giornalistici, la premier sarebbe quasi pentita o preoccupata, sino a non vedere l’ora di rimediarvi con qualche discorso o iniziativa distensiva, anche a costo di spiazzare il suo guardasigilli Carlo Nordio. Che ha appena avvertito evidentemente anche lei che per fare una vera riforma della giustizia, ben oltre l’anticipo del disegno di legge già predisposto dal Consiglio dei Ministri, bisogna smetterla di “chinarsi” alle toghe, e ripristinare finalmente la sovranità della politica. E del Parlamento che fa le leggi, non lasciandole scrivere o cambiare dall’associazione nazionale dei magistrati, che considera “punitiva” ogni norma correttiva dei cambiamenti intervenuti nei rapporti fra politica e giustizia una trentina d’anni fa, con le indagini sul finanziamento illegale dei partiti, se non già prima, come sostiene l’ex presidente della Camera Luciano Violante parlando degli “anni Ottanta” e della lotta al terrorismo e alla mafia delegata, ben oltre i processi, al potere o ordine giudiziario.

         Ma se continuano ad essere buoni per la Meloni, supportata dalla sua intensa attività sul piano internazionale, i numeri cominciano a calare per il suo partito. Che in soli dieci giorni ha perso quasi due punti, scendendo al 29,7 per cento dei voti, di cui quasi uno e mezzo, all’interno della stessa maggioranza, a favore della Lega di Matteo Salvini. Che fa ai “fratelli d’Italia” della premier una concorrenza neppure tanto nascosta nel ricordo dei tempi in cui il centrodestra divenne a trazione appunto leghista. Ciò avvenne, in particolare, nelle elezioni del 2018, quando Salvini investì il suo successo entrando nel governo a trazione, a sua volta, grillina con  Giuseppe Conte a Palazzo Chigi.

         La Ghisleri chiama “grane d partito” quelle che avrebbero penalizzato di quasi due punti in dieci giorni -ripeto- i “fratelli d’Italia”. Che poi sono anche le grane giudiziarie della ministra del Turismo Daniela Santanchè e del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, da cui la premier ha ricavato l’impressione di una certa magistratura all’opposizione. Ma sono, a mio modesto avviso, soprattutto le sopraggiunte grane, sempre giudiziarie, della famiglia di Ignazio La Russa, che ha difeso e assolto dopo un interrogatorio personale il figlio Leonardo Apache, facendogli una lavata di testa solo per avere consumato un presunto stupro a casa sua.  Non il massimo, bisogna riconoscerlo, per un presidente del Senato, e un co-fondatore del partito della Meloni.

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Avviso di Nordio ai naviganti sulla rotta della riforma della giustizia

Intervistato da Libero, il guardasigilli Carlo Nordio ha voluto mandare un avviso ai naviganti, diciamo così. Specie a quelli che si aspettano dalla premier Giorgia Meloni al ritorno dalle sue missioni all’estero, di sua iniziativa o su richiesta o pressione del presidente della Repubblica, un gesto o parole distensive dopo lo scontro con la magistratura da lei stessa accusata, sia pure in alcune “frange”, di fare opposizione politica prendendo di mira esponenti di governo e del suo stesso partito. “L’assedio ora finisce al Quirinale” titola con qualche speranza in prima pagina il pur garantista Foglio giocando fra presunti “auspici” del capo dello Stato, e presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, e la giacenza ancora “sul tavolo di Mattarella” di quella prima parte della riforma Nordio varata recentemente dal Consiglio dei Ministri.  E “depotenziata dallo scontro con toghe e Anm”, acronimo dell’associazione nazionale dei magistrati.

         Nordio – che avrà pure i suoi rapporti col Quirinale, dove non si mosse obiezione alcuna quando, da presidente del Consiglio incaricata, Giorgia Meloni ne propose o ottenne la nomina a ministro per la realizzazione della riforma della giustizia contenuta nel programma elettorale del centrodestra uscito vincente dalle urne- ha profittato dell’intervista a Libero per avvertire -ripeto- che “bisogna smettere di chinarsi” alle toghe più urlanti e al loro sindacato “o la riforma non si farà mai”. Anche se essa mira soltanto a una giustizia “più equa e rapida”, non a minacciare o “punire” i magistrati, come teme il presidente della loro associazione Giuseppe Santalucia.

         D’altronde è da più di 30 anni  -torno a scriverlo- che si aspetta il riequilibrio dei rapporti “bruscamente” cambiati, secondo una celebre espressione usata al Quirinale da Giorgio Napolitano, con le indagini del 1992 sul finanziamento illegale dei partiti, se non si vuole andare ancora più indietro negli anni.  E arrivare, secondo l’analisi dell’ex presidente della Camera Luciano Violante, al tempo in cui la politica cominciò a rinunciare spontaneamente alla sua “sovranità” delegando alla magistratura, ben oltre i processi che le competevano, la lotta al terrorismo e alla mafia.

         Va bene che tutto ormai si svolge a ritmi e contenuti imprevedibili. Abbiamo appena appreso, per esempio, che si sono già incontrati, tornando forse persino a intendersi, Putin e Prigozhin, il capo dei miliziani più armati e pagati da lui denunciato di tradimento e minacciato delle più dure punizioni per la marcia tentata su Mosca. Il presidente turco Erdogan ha rimosso veti e resistenze contro l’adesione della Svezia alla Nato. E magari la segretaria del Pd Elly Schlein finirà davvero nella  “maggioranza ombra” con Giorgia Meloni immaginata da Giuliano Ferrara contro Putin per la guerra in Ucraina. Ma, ad occhio e croce, non credo che Nordio sia il tipo di uomo, e ora anche di politico, disposto a contraddirsi pur di restare al suo posto.

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Le traveggole foglianti su una “maggioranza ombra” di Meloni e Schlein anti-Putin

Presi tutti a “chiacchierare” -ha recentemente protestato sul suo Foglio Giuliano Ferrara- “del pacchiano caso Santanchè”, cui si è aggiunta l’incriminazione coatta del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro per rivelazione di segreto d’ufficio negata dal suo ministro Carlo Nodio, ci sarebbe sfuggita la maggiore e confortevole realtà della politica italiana.

         Ci sarà pure al governo -ci ha spiegato il fondatore del Foglio– una coalizione di destra-centro e non più di centrodestra, ci sarà pure un “bipolarismo imperfetto”, di cui il secondo polo, quello d’opposizione, vive in una confusione maggiore e peggiore dell’altro, ma grazie ai problemi internazionali che ci sovrastano  con la guerra in Ucraina avremmo il vantaggio -un enorme vantaggio- di vivere all’ombra di una  forte “maggioranza contro Putin”. Che comprende “Meloni e il Pd”, anche se l’una e l’altro “non osano dirselo”, con l’aggiunta di una Forza Italia presumibilmente più credibile o tranquilla, nonostante le apparenze, dopo la morte di Silvio Berlusconi. Il quale, pur ignorato stavolta da Ferrara, sulla guerra in Ucraina e sulle responsabilità di Putin non aveva proprio le stesse idee maturate dalla Meloni man mano che scalava Palazzo Chigi già dall’opposizione.

         Ma oltre a ignorare -questa volta, ripeto- il compianto ex presidente del Consiglio, del cui primo governo egli fu il ministro per i rapporti col Parlamento, Ferrara ha generosamente concesso al “Pd di Elly Schlein” -ha scritto- una continuità praticamente illimitata rispetto al Pd di Enrico Letta.  Per il quale alla vigilia delle scorse elezioni politiche Giulianone annunciò con franchezza e vanto di avere deciso di votare, consigliando praticamente ai suoi lettori di votarlo anche loro, reduce com’era quel Pd dalla partecipazione ad un governo presieduto da Maro Draghi. Di cui è rimasta memorabile la foto col presidente francese e il cancelliere tedesco in viaggio ferroviario e solidale verso l’Ucraina invasa dai russi.

         Si, so bene, che la Schlein, salvo qualche dissidenza esplosa nei suoi gruppi parlamentari a Roma e a Strasburgo, non si è o non si è ancora pronunciata contro la prosecuzione degli aiuti militari italiani all’Ucraina, anche a costo di deludere quel Giuseppe Conte che insegue un po’ dappertutto, fra piazze, bar e convegni, sperando di ripristinare prima o poi i rapporti di alleanza con i grillini interrotti dal suo predecessore al Nazareno dopo che lo stesso Conte in persona aveva deciso di staccare la spina a Draghi. Il quale reagì preferendo col presidente della Repubblica Sergio Mattarella le elezioni anticipate a qualsiasi tentativo di pur breve sopravvivenza almeno in apparenza reclamata dai forzisti che, per ritorsione contro la sua indisponibilità, smontarono anche la presa di corrente da cui Conte aveva staccato la spina.

         Sbaglierò nel mio pessimismo della ragione, o del sospetto, opposto all’ottimismo mai come questa volta gramsciano di Giuliano Ferrara, ma il rapporto della Schlein con la fermezza antiputiniana mi sembra sostanzialmente simile a quello assunto sempre da lei di fronte al ricorso al termovalorizzatore nella Roma sommersa dai rifiuti deciso dal sindaco piddino della Capitale Roberto Gualtieri quando al Nazareno c’era ancora Enrico Letta. E a Palazzo Chigi il già ricordato Draghi, che ne aveva posto le premesse in una norma voluta e passata nonostante le proteste e le minacce di Conte, che ne fece una ragione allora addirittura superiore a quella degli aiuti militari all’Ucraina per avviarsi o procedere più speditamente sulla strada della crisi.

         E’ una decisione “ereditata”, ha detto la Schlein del termovalorizzatore a Roma quasi scusandosene con Conte. Un po’ come -ripeto- la decisione di aiutare militarmente l’Ucraina, anche a costo di prolungare una guerra dolorosa come tutte le guerre che quel popolo indomito -altro che “nazificato”, come sostiene Putin- si vanta di affrontare rischiando solo la propria vita, senza compromettere quella dei popoli e dei governi che lo aiutano.

         Una “maggioranza ombra contro Putin” come quella vantata da Ferrara sul Foglio, e contrapposta al “bipolarismo imperfetto” da esportare in Europa attorno al quale perderebbe il suo tempo la cronaca politica, a me sembra piuttosto -a causa delle nebbie arrivate o aumentate nel Pd con l’elezione della Schlein a segretaria- un’ombra di maggioranza. E’ un po’ come il dilemma che pone ormai anche in Inghilterra, dove nacque la formula o l’istituto, l’annuncio della formazione di un governo ombra. Che si rivela nei fatti solo l’ombra di un governo. E con le ombre dal fascino perverso non si va mai molto lontano.

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it il 15 luglio

Il soccorso di Violante alla politica nell’ennesimo scontro fra governo e magistrati

         Colpito dall’”alta tensione” tornata nei rapporti con la magistratura, Paolo Mieli bacchetta nell’editoriale sul Corriere della Sera il governo che, al pari di altri da una trentina d’anni a questa parte, “perde il lume della ragione e denuncia il complotto” per “due, tre (ma anche quattro, cinque, sei) iniziative giudiziarie ad ogni evidenza slegate una dall’altra contro un esponente della maggioranza”, ed anche di più. Questa volta, per esempio, sono due: la ministra Daniela Santanchè e il sottosegretario Andrea Delmastro, entrambi amici e colleghi di partito della premier.

         Anche il governo Meloni avrà perso il lume della ragione, ripeto, ma solo sei pagine dopo la prima dello stesso Corriere si trova, purtroppo senza uno straccio di richiamo accanto o sotto l’editoriale di Mieli, una illuminante intervista di Luciano Violante, già magistrato, già responsabile dei problemi della giustizia per il Pci, già presidente dell’Antimafia e della Camera, in cui a questo come ad altri governi che l’hanno preceduto nel sentirsi “accerchiati” riconosce quanto meno un’attenuante. E’ quella di dovere affrontare ogni anno, ogni giorno e ogni ora, fra elezioni di vario tipo, sondaggi e polemiche, magari attorno a cronache giudiziarie, il giudizio di chi vota.

Il problema, secondo Violante, va cercato “alla radice”. Che è il diritto della politica, anzi la necessità di riprendersi “la sovranità” via via ridottasi e infine perduta spontaneamente “dagli anni Ottanta”, ben prima quindi del terremoto giudiziario che travolse la cosiddetta Prima Repubblica. Tutto cominciò, in particolare, quando la politica delegò alla magistratura, già impegnata di suo con i processi, il compito di combattere in prima linea il terrorismo e la mafia.

         Adesso, sempre secondo Violante, è ora di restituire alla politica la sua sovranità, appunto, evidentemente con una seria riforma della giustizia, anche se lui dissente da alcune delle proposte o dei progetti del governo: per esempio, la separazione delle carriere fra giudici e  pubblici e ministeri, che sono già separate eccome. Lo dimostra l’imputazione coatta del sottosegretario alla Giustizia Delmastro, disposta da un giudice contro l’archiviazione delle indagini chiesta dalla pubblica accusa. Si sa che Violante si aspetta da tempo, piuttosto, una separazione delle carriere fra i magistrati che indagano e i giornalisti che ne riferiscono.

         Dal governo di turno e dai suoi progetti i magistrati e la loro associazione, se non la vogliamo chiamare sindacato, possono anche dissentire ma non atteggiandosi e muovendosi come una “controparte”. Che non sono, perché a fare le leggi è il Parlamento.

         Ora a questa ennesima lezione istituzionale, civile e politica di Violante spero che nessun cretino reagisca tornando a insinuare, a 81 anni belli che compiuti e a sei dalla scadenza del secondo mandato di Sergio Mattarella, ch’egli aspiri a guadagnarsi i consensi della destra per salire al Quirinale.

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Il governo e i magistrati al fronte come in una guerra civile

         “Cosa mi sto perdendo”, fa dire sarcasticamente il vignettista Stefano Rolli sulla prima pagina del Secolo XIX a Silvio Berlusconi in cenere nell’urna custodita nel mausoleo della sua villa ad Arcore. Si sta perdendo, anzi ha perso lo spettacolo degli ultimi sviluppi della “guerra dei 30 anni” fra politica e magistratura, come la chiama Giovanni Bianconi sul Corriere della Sera evocando quella omonima che sconvolse l’Europa fra il 1618 e il 1648, compresa l’Italia stralontana dalla sua unità.

E’ una guerra, quella fra politica e magistratura, cominciata all’epoca delle indagini “Mani pulite” sul finanziamento illegale di un po’ tutti i partiti. Fu allora che si verificò un “brusco spostamento degli equilibri nel rapporto tra politica e giustizia”, lamentato onestamente al Quirinale da Giorgio Napolitano in una lettera diffusa per intero dalla stessa Presidenza della Repubblica ad Anna Craxi per il decimo anniversario della morte del marito Bettino. Al quale era stata riservata dalla magistratura “una durezza senza uguali” come imputato: parole sempre di Napolitano.

         La Meloni come Berlusconi, hanno denunciato ameno alcuni dei suoi avversari lamentando sui temi della giustizia una continuità pari a quella con Mario Draghi sui piani dell’economia e della politica estera, con particolare riferimento alla difesa dell’Ucraina dall’aggressione russa cominciata 500 giorni fa. Il solito Fatto Quotidiano di Marco Travaglio – che liquida come “schiforme” le modifiche all’ordinamento giudiziario propostesi dal governo, compresa la separazione costituzionale  delle carriere fra pubblici ministeri e giudici- è convinto che la Meloni sia anche peggiore del suo pur non immediato predecessore a Palazzo Chigi. Che  faceva leggi “ad personam”, cioè a favore di se stesso, del suo unico ”culo”.

Ora invece la premier del centrodestra, anzi della destra-centro, mediterebbe “leggi ad Melones”, a favore dei suoi amici e colleghi di partito incappati in guai  giudiziari come la ministra del Turismo Daniela Santanchè e il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro. Il quale è sulla strada del rinvio a giudizio per violazione del segreto d’ufficio –“irragionevole” secondo il guardasigilli Carlo Nordio- nonostante l’archiviazione delle indagini chiesta dalla pubblica accusa.

Di qualche intervento o salvataggio  avrebbe forse bisogno, secondo gli avversari della Meloni, anche l’amico presidente del Senato Ignazio La Russa per il figlio Leonardo Apache, da lui già assolto come padre dopo tanto di interrogatorio  dall’accusa di stupro compiuto a casa sua  una quarantina di giorni prima.

Se sono bellicosi i propositi del governo, la cui presidente è convinta che almeno alcune toghe abbiano deciso di fiancheggiare le opposizioni nella lunga campagna elettorale per il rinnovo -l’anno prossimo- del Parlamento europeo, non lo sono di meno quelli dell’associazione nazionale dei magistrati presieduta da Giuseppe Santalucia, mobilitatosi contro una presunta “delegittimazione”.

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Lo scontro della Meloni con le toghe complicato da un caso La Russa

Pur col governo “inguaiato” -come titola un quotidiano non certo ostile come Il Giornale”- dalla vicenda del presidente del Senato Ignazio La Russa sceso in campo per difendere il figlio accusato di uno stupro, peraltro avvenuto a casa sua, la premier Giorgia Meloni non demorde dall’offensiva contro le toghe da lei sospettate di fiancheggiare le opposizioni nella lunga campagna elettorale per il Parlamento europeo da rinnovare fra quasi un anno.

         In prima batttuta, di fronte alla imputazione “coatta” a Roma  del sottosegretario alla Giustizia e collega di partito Andrea Delmastro per abuso d’ufficio sovrappostasi alle indagini milanesi sulla ministra del Turismo Daniela Santanchè, anche lei amica e collega di partito, la presidente del Consiglio se l’è presa con “una frangia della magistratura” politicizzata. Ieri quella frangia è diventata “un potere costituito”.

         Dal Giappone, dov’è in missione internazionale, il guardasigilli Carlo Nordio ha spalleggiato la premier. Prima egli ha definito  “irragionevole” l’imputazione coatta del suo sottosegretario, avendo già sostenuto che non c’era segreto d’ufficio nella vicenda Cospito costata l’incriminazione a Delmastro. E poi ha annunciato il proposito di riformare sia l’istituto dell’imputazione coatta, disposta dal giudice per le indagini preliminari contro l’archiviazione proposta dalla pubblica accusa, sia l’avviso di garanzia praticamente notificato alla Santanchè a mezzo stampa, come quello al compianto Silvio Berlusconi nell’autunno del 1994. Che contribuì a indebolirlo mentre Umberto Bossi già preparava la crisi del suo primo governo sulle pensioni.

         Va detto tuttavia che anche un giornale garantista come Il Foglio ha avuto da ridire, o da riscrivere, sugli assist di Nordio alla premier con un titolo di prima pagina su “Via Arenula fuori controllo”. Non è certamente la vignetta di Altan su Repubblica contro la Meloni decisa a spedire “le toghe rosse nelle fosse”, ma il segnale è ugualmente negativo per la guerra all’arma bianca che va ormai profilandosi tra governo e magistratura.

         Sulla complicazione, sempre per il governo, costituita dal già accennato caso La Russa -sia figlio che padre- che ha inondato di titoli, foto e vignette le prime pagine di quasi tutti i giornali, lasciatemi esprimere quanto meno il disagio che mi procura vedere il presidente del Senato pizzicato dal giornale elettronico La Notizia con questo titolo: “Un caso Grillo in casa La Russa”. Un caso, quello del figlio di Grillo imputato con amici dopo una notte tempestosa di sesso in Sardegna nel 2019 e del padre insorto contro gli inquirenti, ancora aperto. Salvo prescrizione magari favorita, volente o nolente, dal rischio di un processo praticamente azzerato o azzerabile per la sostituzione di un giudice trasferito in altra sede.

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