Romano Prodi chiede a Elly Schlein l’ossimoro di un “radicalismo dolce”

         Anche se nata e cresciuta mediaticamente per la volontà mostrata nel 2013, cioè dieci anni fa, di volerne vendicare la mancata elezione al Quirinale, trafitto da almeno 105 franchi tiratori del Pd, la segretaria Elly Schlein non è riuscita a restare a Cesena, invitata dalla minoranza del partito raccoltasi attorno al presidente Stefano Bonaccini, per ascoltare anche il discorso più annunciato e più atteso: quello di Romano Prodi. L’ha apprezzato solo a distanza, non so francamente con quanta convinzione, ispirando forse la vignetta di Emilio Giannelli che oggi sulla prima pagina del Corriere della Sera propone la Schlein timorosa che “la corrente Bonaccini” finisca per investirla come “un tornado”.

         Prodi nel suo intervento, affaticato dal caldo e dal dolore della recente perdita della moglie Flavia, si è limitato a chiedere alla Schlein l’ossimoro di un “radicalismo dolce”. E in politica estera ne ha addirittura condiviso la sofferenza, chiamiamola così, per i perduranti aiuti militari all’Ucraina aggredita dalla Russia di Putin dicendo che “ci comportiamo da vassalli con gli Stati Uniti”, mancando di una “capacità propositiva”, al pari del resto di una “Unione Europea sbandata”. Che tale evidentemente non era quando a guidarla era praticamente lui a Bruxelles come presidente della Commissione esecutiva, dal 1999 al 2004. Eppure al termine del raduno cesenatico egli è apparso “sorprendente” a Carlo Bertini, della Stampa, per il rifiuto di rispondere ai giornalisti che gli chiedevano un giudizio sulla “gestione Schlein”. “Un no comment accompagnato da una smorfia di fastidio per la domanda”, ha scritto Bertini attribuendo al professore forse troppo generosamente solo “la volontà di non farsi trascinare nelle beghe del partito”. Come se  la decisione di correre a Cesena non avesse avuto alcun significato politico nelle condizioni in cui si trova il Pd dopo la vittoria congressuale della Schlein, gli abbandoni di esponenti di provenienza sia democristiana sia comunista e le sconfitte elettorali già accumulate, e ricordate da Bonaccini.

         Naturalmente è del tutto comprensibile, specie dopo il lutto familiare -ripeto-  che lo ha anche fisicamente segnato, l’accoglienza da padre nobile del partito e da “ultimo vincitore” elettorale riservatagli a Cesena dai convenuti e da molti giornali. Comprensibile, ripeto, ma non per questo del tutto condivisibile. In primo luogo perché la nascita del Pd avvenne anche nel tentativo di interrompere l’esperienza di vaste coalizioni di cosiddetto centrosinistra, uliviste o d’altra denominazione, volute da Prodi e tutte condizionate dagli umori delle componenti più estreme.  In secondo luogo perché, proprio a causa di quella condizione, Prodi dopo le due vittorie conseguite su Silvio Berlusconi, nel 1996 e nel 2006, non riuscì a restare più di due anni scarsi a Palazzo Chigi per governare su designazione degli elettori: la seconda volta trascinandosi  appresso nella caduta anche le Camere, sciolte anticipatamente.  

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Le toghe disarmate verso la partita autunnale della separazione delle carriere

         Pur presieduta da un magistrato, Giuseppe Santalucia, che porta il nome della protettrice della vista, chissà di quanto tempo ancora avranno bisogno nell’associazione delle toghe per rendersi conto del vicolo cieco in cui si sono ficcate facendo la guerra al guardasigilli Carlo Nordio in difesa del fumoso reato di concorso esterno in associazione mafiosa. E strappando alla premier Giorgia Meloni una sostanziale sconfessione del ministro, invitato  ad essere più politico e meno conferenziere, e ad attenersi alle “priorità” del programma del governo. Fra le quali non ci sarebbero né l’abolizione del concorso esterno in associazione mafiosa, d’altronde neppure scritto nel codice ma desunto dalle sentenze, né la sua “rimodulazione”, “tipizzazione” e simili.

         Scaricato tutto l’arsenale di guerra sul terreno del concorso esterno in associazione di stampo mafioso, e le riserve in difesa del reato di abuso d’ufficio contestato dai sindaci anche del Pd, che per questo sono stati travestiti da tanti Nordio nel fotomontaggio di giornata sul Fatto Quotidiano, l’associazione nazionale dei magistrati rischia di arrivare sostanzialmente disarmata alla partita autunnale della separazione delle carriere. Che è stata praticamente annunciata dal presidente della Commissione Affari Costituzionali della Camera, il forzista Nazario Pagano, in un convegno organizzato dall’organismo congressuale forense. Dove il presidente del Consiglio Nazionale degli avvocati, Francesco Greco, ha chiesto che il processo si svolga finalmente con la partecipazione di tre parti uguali e non di “due colleghi”, che sono il giudice e il pubblico ministero, e “un estraneo”. Che sarebbe appunto l’avvocato.

         Pagano ha precisato che le quattro proposte di legge, d’iniziativa parlamentare, per separare le carriere del pubblico ministero e del giudice modificando la Costituzione hanno subìto nei mesi scorsi una battuta d’arresto per la precedenza dovuta alla conversione di alcuni decreti urgenti, ma l’esame riprenderà spedito dopo la pausa estiva, garantito anche da lui come relatore. Il vice ministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto, anche lui forzista, ha ribadito il parere favorevole del governo, rientrando la materia fra le riforme concordate tra i partiti della coalizione di centrodestra. E condivise dal cosiddetto terzo polo, almeno in questo non diviso, come al solito, fra un Carlo Calenda timoroso di trovarsi troppo a destra e un Matteo Renzi per niente imbarazzato, e desideroso di piacere all’elettorato del compianto Silvio Berlusconi. Della cui figlia Marina egli ha tenuto a condividere la recente lettera scritta al Giornale in difesa del padre ancora sospettato di avere voluto vincere le elezioni del 1994 con l’aiuto della mafia stragista.  Una lettera, quella di Marina Berlusconi, sulla quale si è immaginata una contrapposizione alla Meloni smentita da entranbe con una telefonata tradotta in un comunicato dalla figlia del fondatore di Forza Italia.  

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Il pentolone estivo dove l’opposizione di sinistra ha deciso di lasciarsi bollire

         Cinquecentodiciannove milioni di euro destinati alla realizzazione di 7500 posti letto per universitari e trasferiti -d’intesa fra Roma e Bruxelles- dalla terza alla quarta rata dei versamenti europei per il famoso piano di ripresa e resilienza, entrambe incassabili entro l’anno per complessivi 35 miliardi, sono diventati per l’opposizione di sinistra costituita dal Pd e dai grillini l’ulteriore scandalo di questa orrida estate. Di cui la premier Giorgia Meloni e il suo ministro per gli affari europei Raffaele Fitto dovrebbero vergognarsi, quasi quanto la ministra Daniela Santanchè, collega di partito di entrambi e sotto mozione di sfiducia parlamentare per i suoi guai e pasticci aziendali indagati dalla Procura di Milano. O quanto il presidente del Senato Ignazio La Russa del figlio accusato di stupro nella casa di famiglia e da lui invece assolto dopo interrogatorio domiciliare.  O quanto il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro della sua imputazione coatta per rivelazione di segreto d’ufficio. O il guardasigilli Carlo Nordio della pretesa quanto meno intempestiva di mettere finalmente nel codice, con la dovuta grammatica giudiziaria, il reato giurisprudenziale di concorso esterno in associazione di stampo mafioso applicato da anni nei tribunali.

  “Questo governo -ha dichiarato il capogruppo piddino del Senato Francesco Boccia, pretoriano della segretaria del partito Elly Schlein- non è in grado di gestire il più grande progetto di rinascita e sviluppo del nostro Paese. Da oggi è ufficiale che siamo costretti a rinunciare a 500 milioni della terza rata”.  Che -ripeto- passano invece dalla terza alla quarta rata, entrambe di prevista erogazione entro l’anno.

Dalla reazione di Boccia Il Fatto Quotidiano ha ricavato il suo titolo di prima pagina, dove “Fitto auto-taglia mezzo miliardo”. “Gufi in crisi di nervi”, ha commentato, forse non a torto, Il Giornale mettendo tutto insieme nel pentolone estivo nel quale l’opposizione ha deciso di lasciarsi bollire durante quest’estate “militante” della Schlein.

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Quando Sandro Pertini fece al Quirinale lo “sciopero” della firma

I quindici giorni e più lasciati trascorrere da Sergio Mattarella per autorizzare con la sua firma la presentazione al Parlamento del disegno di legge contenente un anticipo della riforma della giustizia, limitato all’abolizione del reato di abuso d’ufficio, ad una rimodulazione del traffico d’influenze, all’uso delle intercettazioni e al ricorso alle manette durante le indagini mi hanno riportato alla mente le due settimane abbondanti trascorse fra il 22 gennaio e l’8 febbraio del 1985, quando al Quirinale c’era l’indimenticato e indimenticabile Sandro Pertini. Che peraltro, diversamente da Mattarella oggi, era nell’ultimo semestre del suo mandato, quando ogni atto o sospiro del capo dello Stato si presta, a torto o a ragione, anche a letture funzionali all’esaurimento davvero del settennato presidenziale o ad una conferma. Da cui -lasciatevelo dire da un testimone e cronista di tante corse al Quirinale- tutti più o meno si sono lasciati tentare, al di là e contro le smentite opposte a giornalisti scambiati per provocatori o pennivendoli.

         Pertini trasecola a gennaio di 38 anni fa leggendo sui giornali del ministro del lavoro Gianni De Michelis, socialista come lui, incontratosi cordialmente a Parigi con Oreste Scalzone e altri protagonisti o attori degli anni di piombo rifugiatisi in Francia per sottrarsi alla giustizia italiana. Il Capo dello Stato, che ha perso il conto dei funerali delle vittime del terrorismo cui ha dovuto partecipare, non crede ai suoi occhi. Telefona all’ambasciata d’Italia a Parigi per informarsi e poi all’interessato direttamente, che cerca di negare o minimizzare l’accaduto facendolo arrabbiare ancora di più.

         Dal Quirinale parte una lettera privata al presidente del Consiglio Bettino Craxi, socialista pure lui, in cui Pertini chiede la rimozione di De Michelis, pur sapendo di averlo a suo tempo nominato ma di non poterne disporre la decadenza. Craxi lo chiama cercando di calmarlo ma finisce anche lui per irritarlo a tal punto che Pertini gli dice che “formalità per formalità”, come lo stesso Craxi dopo qualche anno mi racconterà personalmente, non avrebbe controfirmato nulla come presidente della Repubblica sino a quando De Michelis sarebbe rimasto al suo posto di governo. 

         Il presidente del Consiglio -che ritiene di conoscere bene “Sandro”, come chiama affettuosamente Pertini, e presume anche di essersene guadagnata la riconoscenza per avere quanto meno contribuito alla sua ascesa al Quirinale, pur avendo inizialmente puntato su un altro candidato socialista- confida leopardianamente sulla quiete dopo la tempesta. Ma dal Quirinale continua a piovere sui provvedimenti che arrivano alla firma del Capo dello Stato. La carta è bagnata e Pertini non firma. Alla fine Craxi si arrende e telefona a De Michelis per “ordinargli” -sempre parole del suo racconto- di smetterla di “rompere i coglioni” e di decidersi a scrivere a Pertini per scusarsi, quanto meno. De Michelis obbedisce come Garibaldi e in  cambio il presidente della Repubblica riprende a firmare, pur rassegnandosi alla permanenza del riccioluto ministro al governo.

         Mattarella non è arrivato a tanto per sbloccare la firma al disegno di legge sulla giustizia accennato all’inizio, pur lasciando che certi giornali ricamassero un po’ sulla sua lunga, quasi minacciosa riflessione. Prima di firmare si è probabilmente accontentato dell’impegno assunto con lui direttamente qualche giorno prima dalla premier Giorgia Meloni che sarebbero state tenute in debita considerazione durante il cammino parlamentare del provvedimento le riserve e preoccupazioni da lui espresse sul potenziale conflitto tra l’abolizione del reato di abuso d’ufficio e, fra l’altro, una direttiva europea in tema di lotta alla corruzione. Ma proprio questa direttiva -dannata casualità, che ha procurato a Mattarella e alla Meloni derisioni e critiche del solito Fatto Quotidiano– è stata in poche ore bocciata in commissione alla Camera dalla maggioranza compatta di centrodestra, o di destra-centro.

         “Schiaffo al Quirinale”, ha gridato non il giornale di Marco Travaglio, sbizzarritosi col solito fotomontaggio per rappresentare Meloni e soci in allegro approccio ad una valigia di soldi provenienti o destinati alla corruzione, ma la più compassata Stampa. Che si è rifatta del successo che ha dovuto riconoscere al governo per la grazia a Patrik Zaki appena strappata al presidente egiziano Al Sisi rinfacciando alla Meloni un “doppio gioco” con Mattarella e dintorni sui temi della giustizia. Siamo ormai ai materassi. E la partita parlamentare dell’anticipo della riforma Nordio, bloccato davvero solo sulla strada della “rimodulazione” e simili del concorso esterno in associazione di stampo mafioso, è solo all’inizio, o addirittura al preambolo.

Alla fine il presidente della Repubblica, avvalendosi dell’articolo 74 della Costituzione compreso in una parte riguardante non i suoi poteri ma “la formazione delle leggi”, riconosce al capo dello Stato che “prima di promulgare la legge può con messaggio motivato alle Camere chiedere una nuova deliberazione”. Ma nel capoverso o comma successivo lo stesso articolo stabilisce che “se le Camere approvano nuovamente la legge, questa deve essere promulgata”. A meno che il presidente della Repubblica si rifiuti violando o tradendo la Costituzione: sarebbe un ossimoro per uno come Mattarella. Ossimoro come Nordio considera il reato, non scritto nel codice, di concorso esterno in associazione mafiosa, anche se sembra rassegnato, almeno per ora, a dirlo senza intervenire per rimuoverlo o scriverlo finalmente rispettando la grammatica giudiziaria.

Pubblicato sul Dubbio

La Camera dissente da Mattarella contrario all’abolizione dell’abuso di ufficio

         Non sarà stato lo “schiaffo al Quirinale” gridato dalla Stampa con l’aggravante del “doppio gioco della premier”, che avrebbe promesso attenzione e rispetto per le riserve, preoccupazioni e quant’altro espostele personalmente dal capo dello Stato qualche giorno fa, ma non è stata neppure una carezza quella che la Camera, sia pure solo in commissione per ora,  ha riservato a Sergio Mattarella bocciando una direttiva europea contro la corruzione. Che era fra gli ostacoli o ragioni opposte dal presidente della Repubblica all’abolizione del reato di abuso d’ufficio contenuta in quella specie di antipasto della riforma della giustizia costituto da un disegno di legge varato dal Consiglio dei Ministri. E a lungo trattenuto, non a caso, da Mattarella sulla sua scrivania prima di autorizzarne la presentazione al Parlamento.

         In mancanza delle modifiche che si aspettava e forse ancora si aspetta, anche dopo il segnale giuntogli dalla Camera, che esaminerà in seconda lettura il provvedimento arrivato al Senato per l’esame, il capo dello Stato potrà rimandarlo al Parlamento per un altro voto. E’ un diritto riconosciutogli dalla Costituzione in un articolo che però l’obbliga alla firma e alla promulgazione nel caso di una conferma della precedente deliberazione. Alla quale il capo dello Stato o si arrende e firma o si dimette, se vuole continuare a dissentire rifiutando un atto a quel punto dovuto, cioè violando, tradendo e quant’altro la Costituzione.

         Qui non siamo più nelle acque delle chiacchiere che hanno sinora contrassegnato, tra polemiche, messaggini e altri segnali sul tema da più di trent’anni scivoloso della giustizia, ma navighiamo, o cominciano a navigare tra fatti concreti. Quel voto alla  Camera non è stato e non è uno dei soliti fotomontaggi che Il Fatto Quotidiano di Marco Travaglio, tra gli applausi o i sorrisi compiaciuti dei grillini, regala ai lettori per raccontare a suo modo avvenimenti e desideri. Proprio oggi i numeri della Camera si trovano tradotti nelle risate di soddisfazione e di sfida di Antonio Tajani, Giorgia Meloni, Matteo Salvini, Matteo Renzi e Carlo Calenda -da sinistra a destra e dall’alto in basso- sopra a una valigia di euro guadagnati o spesi in corruzione.

         Il guardasigilli Carlo Nordio in questo fotomontaggio è stato risparmiato, e lasciato dal Fatto e da altri giornali di vario colore, tendenza o area nell’umiliazione infertagli, tra realtà e immaginazione, dalla premier diffidandolo praticamente sul versante per niente prioritario della rimodulazione, o come altro si voglia chiamare, del reato di concorso esterno in associazione di stampo mafioso. Un reato peraltro contenuto non nel codice penale -o non ancora- ma in alcune sentenze confermate sino alla Cassazione mescolando altri articoli dello stesso codice, come se si potesse usarli come i barman fanno con i liquori o simili.

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Aumentano con il caldo le traveggole di carta sui vari fronti della politica

Chiamatele, anzi chiamiamole pure traveggole di carta, o da caldo, viste le temperature nelle quali ci tocca di vivere pur non essendo ancora finiti da morti all’inferno. Ma quando queste traveggole si basano su fatti o circostanze reali e ci cascono fior di giornalisti, non improvvisati ma di una certa esperienza, il disorientamento diventa grande. E si è colti dal sospetto di essere caduti in qualche tranello anche noi che ci siamo sentiti presuntuosamente esenti dal rischio di scambiare lucciole per lanterne.

         Al Foglio -dove Giuliano Ferrara in persona ha intravisto di recente una “maggioranza ombra Meloni-Schlein” in funzione anti-Putin per via della guerra in Ucraina, vista la convergenza fra il governo e il Pd anche della Schlein, appunto, dopo quello di Enrico Letta, sugli aiuti militari al Paese aggredito dalla Russia- si sono accorti in pochi giorni anche loro che la nuova segretaria del Nazareno è diversa dal predecessore. “Quando Amleto avanza sulla scena e dice di “essere ….o non essere?, nella pausa fra le due alternative pensa a Elly Schlein”, dice oggi un titolo su tutta la prima pagina fogliante a proposito dell’astensione ordinata dalla segretaria del Pd ai suoi parlamentari sulla maternità surrogata, o utero in affitto. Astensione tradotta dal gruppo  in una fuga dall’aula per le sue divisioni.

         In compenso, e su un fronte che dovrebbe essere considerato opposto, pur provenendo anche Giuliano Ferrara da una consistente esperienza comunista di famiglia, Piero Sansonetti sulla Unità che è da poco riuscito a riportare nelle edicole ha scoperto, denunciato e quant’altro un “patto Meloni-Travaglio”, tradotto in “più manette”, sul terreno sempre  ingarbugliatissimo della lotta alla mafia.

         La Meloni, secondo Sansonetti, non contenta di avere stoppato il ministro della Giustizia Carlo Nordio sulla strada di una “rimodulazione” del reato “ossimoro” -come lo chiama lo stesso Nordio- di concorso esterno in associazione mafiosa, ha deciso di vanificare con un decreto legge una sentenza della Corte di Cassazione dello scorso anno che sta rendendo difficile l’applicazione dell’aggravante mafiosa a certi  delitti.

         Grazie anche a questa iniziativa la premier di destra si sarebbe messa al riparo dal sospetto di avere dimenticato i suoi giovanili o adolescenziali entusiasmi per Paolo Borsellino, magistrato di simpatie di destra assassinato dalla mafia 31 anni fa a Palermo. In ricordo del quale Meloni è corsa oggi in Sicilia per deporre corone di fiori e quant’altro, ma evitando di programmare, nel timore di contestazioni e disordini ma anche per altri impegni, la partecipazione alla fiaccolata abitualmente conclusiva delle manifestazioni celebrative. Una “fuga” da via D’Amelio, ha titolato Il Fatto, che non perdona a Meloni di avere portato Nordio in via Arenula  e, anche a costo di smentire la rappresentazione di Sansonetti, continua a tenerla sotto tiro, ritenendo evidentemente solo apparenti le  sconfessioni del suo ministro. Che d’altronde non se n’è per niente risentito.  

Caronte e Salvini accendono altri fuochi dopo quello della giustizia

Un po’ Caronte con il caldo ma forse ancora di più quel diavolo di Matteo Salvini con la sua proposta della “pace fiscale”, fatta di nuovi condoni, sono riusciti a distogliere l’attenzione dai problemi della giustizia che hanno acceso, a dir poco, per giorni il dibattito politico sino ad allarmare il Quirinale. Ora è il turno della “guerra sulla pace fiscale”, appunto, come titola Il Giornale, o del “Governo diviso sul Fisco”, come titola Repubblica.

         A non volersi distrarre dalla guerra sulla giustizia, chiamiamola così col Giornale, è solo o soprattutto il solito Fatto Quotidiano. Che tra titolo e fotomontaggio in prima pagina ha cannoneggiato contro Marina Berlusconi alla sua maniera, cioè insultandola, per la difesa della memoria del padre fatta scrivendo proprio al Giornale contro i pubblici ministeri di Firenze ancora impegnati contro di lui per le stragi di mafia che ne avrebbero preparato e favorito la vittoria elettorale del 1994.

         Con minore evidenza ma uguale ostinazione ha voluto continuare ad alimentare la guerra sulla giustizia Giancarlo Caselli scrivendo sulla Stampa, che si alterna al Fatto Quotidiano nell’ospitarlo, contro “il gioco delle tre carte” che starebbe facendo il guardasigilli Carlo Nordio: prima cercando di demolire il reato di concorso esterno in associazione mafiosa e poi fingendo, sempre secondo Caselli, l’allineamento alla premier Giorgia Meloni, che non considera “prioritario” questo problema. E ciò specie a ridosso delle celebrazioni del 31.mo anniversario della strage di via D’Amelio, a Palermo, dove la mafia eliminò con la scorta Paolo Borsellino facendo peraltro scattare nella quindicenne Meloni la voglia o vocazione politica per vendicare quel magistrato di simpatie di destra.

         “Sarò incontentabile -ha scritto Caselli tentando un bilancio delle polemiche del e sul ministro della Giustizia- ma a me sembra che Nordio ne esca non con la bocciatura secca che avrebbe meritato un vero e convinto sostegno dell’antimafia, ma con un semplice invito a posporre ad “altre priorità” l’attuazione delle sue “precise valutazioni”. Tanto più che a favore di Nordio si sono schierati big della maggioranza come Guido Crosetto e Antonio Tajani”: il primo, ministro della Difesa amico e collega di partito della stessa Meloni, e il secondo, vice presidente del Consiglio e ministro degli Esteri, appena eletto segretario di Forza Italia. “Purtroppo, dunque, la vicenda non può dirsi conclusa”, ha ricavato con grande preoccupazione l’ex capo storico della Procura di Palermo.

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Forza Italia presidenzialista ma non più presidenziale dopo Berlusconi

Anche se ha qualcosa di biblico, di sacro quel “non avrai altro presidente fuori di lui” voluto da Antonio Tajani pensando a Silvio Berlusconi nel Consiglio Nazionale dal quale ha voluto farsi eleggere segretario di Forza Italia, e non appunto presidente, il partito azzurro non diventerà una religione, una Chiesa. Come invece a suo tempo alcuni democristiani immaginarono forse il proprio partito, soffrendo il gioco delle correnti che ne facevano spesso una torre di Babele, e i comunisti ritennero il loro convincendo addirittura gli avversari a considerarlo tale, ma col Cremlino al posto della Basilica di San Pietro a Roma.

         Dopo una trentina d’anni di vita sotto quella che è stata definita da fior di politologi “una monarchia assoluta” col compiacimento, in fondo, dello stesso Berlusconi, che non si lasciava scappare occasione per ricordare che a decidere era sempre lui, e lui soltanto, pur assicurando almeno a parole di sentire tutti, Forza Italia è diventata inevitabilmente un partito contendibile lasciandosi guidare da un segretario. Al quale non a caso il vice presidente della Camera Giorgio Mulè ha auspicato che già al prossimo e primo congresso, nella primavera del 2024, possano proporsi per la successione un altro o più candidati. La cui vittoria farebbe del povero Tajani, suo malgrado, un emulo del giovanissimo protagonista del famoso film svedese del 1951 intitolato “Ha ballato una sola estate”. Neppure tutta peraltro, nel caso del mio amico Antonio, essendo cominciata con un certo ritardo.

         Nel partito non più presidenziale, pur ancora presidenzialista sul piano istituzionale, Tajani è partito con una elezione all’unanimità e con la benedizione della famiglia Berlusconi, al netto dell’assenza della sua ultima compagna e quasi moglie Marta Fascina, comunque rappresentata da alcuni fedelissimi unitisi all’elezione del segretario. Ma l’unanimità nei partiti, almeno in quelli davvero democratici, come Tajani per primo dovrebbe augurarsi che sia il suo, è sempre precaria. Persino la buonanima di Aldo Moro quando preparava il centro-sinistra, col trattino, preferì liberarsene in una riunione della direzione democristiana comunicando che il documento conclusivo era stato approvato “con le consuete riserve” dei centristi di Mario Scelba.  E a quest’ultimo che protestò avendo invece votato a favore, soddisfatto delle condizioni indicate per l’alleanza con i socialisti, Moro rispose amichevolmente spiegandogli la convenienza di un suo dissenso ufficiale perché  potessero essere condotte meglio le trattative col Psi di Pietro Nenni.

         Per quanto riguarda poi la benedizione della famiglia Berlusconi, della quale Tajani si è mostrato orgoglioso sino a commuoversi, forse non pensando solo ai debiti del partito accollatisi già in vita dal fondatore, ritengo personalmente che questa sia una partita tutta da vedere o giocare man mano che passerà il tempo.  Non gioco un euro né sulla prosecuzione né sull’interruzione del legame attuale tra il partito azzurro e i figli del fondatore, conoscendo bene la volubilità sia dei sentimenti sia degli affari combinati con la politica.

         Il compito del primo segretario di Forza Italia non sarà facile. Egli dovrà guardarsi sia dalle insidie interne, così chiaramente emerse dall’auspicio già ricordato di Mulè che un novo segretario possa essere eletto già nella primavera prossima, sia dalle insidie esterne riconducibili agli interessi politici, in particolare, o soprattutto, di Giorgia Meloni e di Matteo Renzi.

         La premier, e leader della destra, si è affrettata a rallegrarsi -credo sinceramente- della guida di Forza Italia assunta dal suo vice e ministro degli Esteri ma la lealtà di alleata e amica non potrebbe impedirle di aspirare a raccogliere qualche frutto da un’eventuale erosione del bacino elettorale azzurro dopo questa fase in cui i sondaggi positivi risentono forse anche di un effetto emotivo.

Di certo le difficoltà incontrate nella tenuta di una linea garantista, evidenziate dalla contestazione dell’urgenza o “priorità” della rimodulazione, cara al ministro della Giustizia Carlo Nordio, del nebuloso e sempre controverso reato di concorso esterno in associazione mafiosa, hanno ridotto forse le capacità attrattive della premier nei riguardi dell’area elettorale e parlamentare di Forza Italia. Il cui segretario non a caso ha tenuto a rimarcare la condivisione sua personale e del partito azzurro delle opinioni e delle iniziative di Nordio. Ma credo assai difficile che la Meloni, al di là delle contingenze, si lascerà convincere dalla ex direttrice del Secolo d’Italia Flavia Perina, che sulla Stampa l’ha sollecitata a liberarsi dell’ormai fantasma di Berlusconi e di tornare alla sua adolescenziale venerazione del magistrato Paolo Borsellino. La cui morte nella strage mafiosa di via D’Amelio, a Palermo, 31 anni fa aveva acceso in lei, appena quindicenne, la vocazione politica. Non credo insomma che la Meloni, per quanto possa o voglia consigliarla diversamente anche il magistrato e suo principale sottosegretario a Palazzo Chigi Alfredo Mantovano, potrà e vorrà perdere il Nordio tanto voluto prima come candidato della destra al Quirinale, poi come parlamentare e infine come guardasigilli. Né Nordio mi sembra francamente tentato da una vera rottura.

Ma oltre e più ancora della difesa dello spazio forzista dalla capacità attrattiva che ha pur sempre chi guida un governo e un’alleanza, Tajani ha perseguito con una forte rivendicazione del garantismo la difesa dello spazio forzista dal già citato Renzi. Che, smanioso come sempre, ripetendo l’errore della intempestività già compiuto in altre occasioni, ha lamentato una certa “timidezza” di Tajani proprio sul fronte garantista, contrapponendosi di fatto a lui come erede di Berlusconi in questo campo: una specie di “royal baby” di ritorno, dopo quello inventato da Giuliano Ferrara nel 2014 e smentito dallo stesso Berlusconi due anni dopo schierandosi contro la riforma costituzionale renziana nel referendum del 2016.

Pubblicato sul Dubbio

Scherzi da prete, o da vescovo, alla Meloni in Tunisia per l’accordo anti-scafisti

         Annasperà pure su qualche problema interno, come quello sempre scivoloso dei rapporti fra politica e giustizia, con i quali si sono confrontati faticosamente anche altri presidenti del Consiglio di diverso colore o schieramento, ma bisogna riconoscere che Giorgia Meloni continua a cogliere successi sul piano internazionale, per quanto minimizzati o contestati dai suoi avversari. Ieri, per esempio, ha partecipato in Tunisia alla firma del memorandum d’intesa di Cartagine fra l’Unione Europea e la stessa Tunisia per una parthnership strategica e globale, per la quale la premier italiana si è spesa moltissimo trascinandosi praticamente appresso la presidente tedesca della Commissione europea Ursula von der Layen e il premier d’Olanda Mark Rutte.

         Si tratta di un tassello essenziale a quel cambio di rotta che la Meloni si vanta di avere fatto maturare in Europa facendo dell’immigrazione un problema più “esterno” che “interno”, risolvibile pensando e rimediando più alle partenze, lottando gli scafisti, che agli arrivi sui confini meridionali europei. Di cui quelli italiani sono una parte certamente non secondaria. .

         Mentre il leader leghista  Matteo Salvini da vice presidente del Consiglio e ministro dell’Interno del primo governo di Giuseppe Conte si adoperò, anche a costo di finire sotto processo dopo la caduta di quel governo e un cambiamento di maggioranza, per ostacolare l’accesso ai porti e alle coste italiane, la Meloni ha preferito scommettere non più sul blocco navale reclamato irrealisticamente quando era all’opposizione, ma sulla possibilità di controllare e disincentivare le partenze accordandosi con gli Stati interessati e favorendone condizioni e sviluppo. In questa prospettiva la premier persegue un piano Mattei evocando la politica di forte collaborazione con i paesi rivieraschi d’Africa, e non solo, praticata dallo storico fondatore dell’Eni.

         Per quanto sia riuscita in più occasioni a stabilire un rapporto di simpatia col Papa in persona, la Meloni si è trovata a fare i conti in questa sua visione e gestione del problema dei migranti con i vescovi italiani. O almeno con il loro giornale, Avvenire, che ha così titolato ieri in prima pagina precedendo la missione della premier: “Un patto discutibile”. Discutibile perché “il governo tunisino -ha titolato ancora il quotidiano cattolico- manda i profughi a morire nel deserto e aizza la piazza contro i neri”, ora anche con l’aiuto politico e finanziario dell’Unione Europea, sempre secondo Avvenire. Con i cui scherzi da prete, anzi da vescovo, concorda una sinistra dimentica che le premesse della politica perseguita oggi dal governo italiano risalgono all’’azione di un esponente del Pd come Marco Minniti, ministro dell’Interno del governo di Paolo Gentiloni. Che non  è un omonimo, ma proprio il commissario europeo in carica per gli affari economici e monetari. Che un aiuto alla Meloni per far passare la sua linea a Bruxelles l’ha sicuramente dato.

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Fiandaca tradisce Nordio sul concorso esterno in associazione mafiosa

         Bel colpo per un giornale come Repubblica –anche se pubblicato ieri con insolita discrezione all’interno, senza uno straccio di richiamo in prima pagina, magari sotto il titolo dedicato al “governo diviso su Nordio”- l’intervista nella quale il professore emerito di diritto penale Giovanni Fiandaca, un mito per i garantisti, ha dissentito dal proposito del ministro della Giustizia di “rimodulare”, riscrivere e quant’altro, pur senza abolirlo, quel reato misterioso che è sempre stato il concorso esterno in associazione mafiosa. Un ossimoro, lo considera il guardasigilli, che deve essersi sentito tradito da Fiandaca più ancora che dal sottosegretario a Palazzo Chigi Alfredo Mantovano, intervenuto per escludere un intervento su quel reato fra le “priorità” del governo.

         Intervistato da Liana Milella- della quale non mi è mai capitato di cogliere un sorriso sul volto, e che di solito interroga come un pubblico ministero l’interlocutore, sino a procurarsene qualche volta reazioni di fastidio- il professore Fiandaca ha detto che “ora non è il momento” di un intervento legislativo sul concorso esterno in associazione mafiosa perché “troppo forte la contrapposizione politica, anche se si tratta da sempre di un intervento necessario”.

         Piuttosto che “aggravare la nevrosi politico-istituzionale determinata dal conflitto tra politica e giustizia…..è meglio che sia la Cassazione -ha detto il giurista- a cercare di migliorare per via giudiziaria la tipizzazione del concorso”. Non ho mai sentito formulare così chiaramente una richiesta alla politica di rinunciare alla propria sovranità per lasciare ai magistrati la sostanziale formulazione delle leggi. E’ qualcosa che assomiglia alla resa della politica alla giustizia avvenuta ai tempi di Tangentopoli, o “Mani pulite”, con la rinuncia del Parlamento alle autorizzazioni a procedere contro i suoi esponenti richieste dall’originario articolo 68 della Costituzione.

         Bel colpo, ripeto, per un giornale come Repubblica, ma bruttissimo per quanti giustamente aspirano a riequilibrare i rapporti fra politica e magistratura “bruscamente cambiati” fra il 1992 e il 1993, secondo una famosa e per niente entusiastica osservazione di Giorgio Napolitano nel 2010 al Quirinale.

         Meno clamoroso per il livello dell’intervento, senza volere offendere l’interessata, ma pur sempre significativo è l’invito rivolto sulla Stampa di ieri, in prima pagina, a Giorgia Meloni dall’ex direttrice del Secolo d’Italia Flavia Perina a liberarsi del fantasma, ormai, di Silvio Berlusconi per affrontare i problemi della giustizia in una chiave praticamente più consona alle posizioni originarie, per niente garantiste, della sua parte politica. E ciò specie a pochi giorni dalla celebrazione del 31.mo anniversario della strage di via D’Amelio, a Palermo, dove fu ucciso il magistrato Paolo Borsellino. La cui fine scosse tanto la pur quindicenne Meloni da farle venire la voglia o la vocazione politica.

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