Tutti gli emeriti consigli e apprezzamenti a Giorgia Meloni

         Di ritorno con la sua piccola Ginevra dagli Stati Uniti, sulla premier Giorgia Meloni sono ripiovute non dico come grandine – d’attualità in questi tempi estivi- ma quasi le critiche e le diffidenze di critici abituali come Ezio Mauro su Repubblica e Massimo Cacciari sulla Stampa. Il primo l’ha accusata di capeggiare, anche dopo l’incontro col presidente americano e gli apprezzamenti che ne ha ricevuto, una “destra ferma nella terra di nessuno”. Il secondo le ha rimproverato di “non essere ancora all’altezza dei suoi obiettivi”.

         Diversamente dall’ex direttore Mauro, tuttavia, sulla stessa Repubblica Giuliano Amato, un presidente emerito di un pò di tutto, dal Consiglio dei Ministri alla Corte Costituzionale, ha auspicato -letteralmente- che la destra conservatrice della Meloni faccia parte della maggioranza nel Parlamento europeo rinnovato l’anno prossimo: non in sostituzione- ha precisato- ma in aggiunta ai socialisti alleati con i popolari. Sarebbe una maggioranza “di emergenza”,  come fu in Italia quella realizzata fra democristiani e comunisti negli anni di piombo per combattere il terrorismo. Che allora era quello cui ricorrevano brigatisti di destra e di sinistra e oggi è quello “anche peggiore” praticato in modo “indiscriminato” dal clima con quelle palle “non da tennis ma di ghiaccio” che ci cadono addosso. “Il terrorismo del clima -ha detto Amato- non si sconfigge senza una voce politica uniforme” e un cambiamento radicale di abitudini generali di vita, non abusando più dei territori su cui viviamo.

         Interrotto dall’intervistatrice convinta che i legami della Meloni con la destra spagnola Vox, fresca peraltro di una clamorosa sconfitta elettorale, non rendano affidabile la premier italiana neppure sul terreno da lui teorizzato e auspicato, Amato ha risposto: “Nel programma di Vox è scritto che la transizione ecologica è un’invenzione delle elites per portare via i soldi ai ceti popolari. Mi sembra che in Italia queste posizioni estremiste siano confinate ai titoli del giornale La Verità”. Che non è l’organo ufficiale del partito della Meloni. Né il suo direttore Maurizio Belpietro sembra francamente aspirare a farlo diventare.

         D’altronde, più del partito della Meloni preoccupa da qualche tempo Amato la Lega di Matteo Salvini per l’accelerazione reclamata del progetto delle cosiddette autonomie differenziate. Che l’ex presidente del Consiglio ritiene “incostituzionali” nei contenuti e nei tempi voluti dai leghisti, tanto da essersi dimesso con altri autorevoli esponenti dalla commissione di esperti di cui il ministro Roberto Calderoli intendeva avvalersi per portare avanti il suo disegno di legge.

         Dopo quelli di Henry Kissingher negli Stati Uniti arrivano insomma alla Meloni anche i consigli e gli auspici dell’emerito italiano Giuliano Amato, non dissimili -penso- da altri forniti da tempo dietro le quinte, prima e dopo le ultime elezioni politiche, dal diretto predecessore della stessa premier a Palazzo Chigi Mario Draghi.

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Il bombardamento sociale sulla Meloni di ritorno dagli Stati Uniti

         Oddio, che cosa è accaduto in sole 24  ore perché la prima pagina del più diffuso giornale italiano -il Corriere della Sera naturalmente- potesse e dovesse passare dall’annuncio dell’amministratore delegato della banca Intesa Sanpaolo, Carlo Messina, che “l’Italia può fare meglio anche della Germania” alla rappresentazione di un Paese sotto bombardamento sociale, diciamo così. “Rischi di tenuta sociale”, appunto, è il titolo di un’intervista del Corriere all’ex ministro Francesco Boccia, oggi capogruppo del Pd al Senato e pretoriano della segretaria del partito Elly Schlein, appena insorta come un Conte o un Grillo qualsiasi contro il reddito di cittadinanza tolto a 169 mila famiglie.

         Questa notizia, in verità, era già di ieri. Oggi è diventata una “bomba” per le reazioni politiche e sindacali sposate in pieno sulla Stampa -che pure  non è o non ancora l’organo della Cgil o del Movimento 5 Stelle-  dal direttore Massimo Giannini. Che ha scritto: “Certo colpisce, e quasi ferisce, che nello stesso giorno in cui vara un’altra infornata di condoni fiscali per le classi di reddito medio-alte, la maggioranza chiuda i rubinetti del Reddito di Cittadinanza per 200 mila famiglie povere. E lo fa nel modo più becero, che solo il freddo cinismo burocratico del nuovo Leviatano social-cattivista può concepire”.

         “Come i Giganti del Web che licenziano i dipendenti con una mail -ha raccontato o spiegato Giannini- lo Stato comunica l’interruzione del sussidio con un sms. L’efficientismo digitale, moderno e impersonale, applicato a quel che resta del Welfare. Niente male per quella che un tempo fu “destra sociale”, ed oggi è uno strano impasto di thatcherismo all’amatriciana e corporativismo alle vongole”: E giù a denunciare le “metamorfosi” di Giorgia Meloni, anche se a scegliere lo strumento del messaggino sui cellulari  è stata la struttura dell’Inps lasciata dal non certo meloniano Pasquale Tridico. Che -a mio avviso, giustamente- si è guadagnato non la minaccia ma l’annuncio da parte dei parlamentari della Meloni di una proposta di commissione parlamentare d’inchiesta sui controlli notoriamente mancati nell’erogazione del Reddito di Cittadinanza, sempre con le rispettose maiuscole usate dal direttore della Stampa. Che probabilmente si sarà riconosciuto anche nella odierna foto opportunity del Fatto Quotidiano, col cartello dei dimostranti di turno in cui si grida che “il nemico è chi affama, non chi ha fame”

         Temo che Il punto centrale di tutto questo bailamme politico, sociale, mediatico stia proprio nelle “metanorfosi” rimproverate alla premier Gorgia Meloni. Di cui gli avversari di ogni tipo hanno a loro modo salutato il ritorno dalla fortunata missione negli Stati Uniti unendosi ai piromani estivi, cioè attizzando il fuoco politico e sociale nell’Italia che pure “può fare meglio anche della Germania”, secondo il già citato banchiere Carlo Messina.

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I voli atlantici ed elettorali della premier italiana Giorgia Meloni

Ai 90 minuti con Joe Biden alla Casa Bianca nella visita della premier italiana Giorgia Meloni negli Stati Uniti si sono aggiunti i 120 minuti col centenario, e ormai leggendario, Henry Kissinger nell’ambasciata italiana. Che la presidente del Consiglio ha voluto ringraziare anche con una nota di Palazzo Chigi definendolo “una delle menti più lucide” e “punto di riferimento della politica strategica e della diplomazia” americana.

         L’ex Segretario di Stato degli Stati Uniti e consigliere per la sicurezza di vari presidenti, reduce peraltro da una visita privata a Pechino che ha attirato l’attenzione della stampa internazionale, non ha dedicato per caso tanto del suo tempo alla premier italiana. Della quale ha evidentemente apprezzato la linea di politica estera adottata a Palazzo Chigi, ma già avvertibile negli ultimi tempi della sua pur formale opposizione al governo precedente di Mario Draghi. Che fu sostenuto apertamente dalla destra italiana, per esempio, sull’aiuto militare all’Ucraina aggredita dalla Russia di Putin man mano che se ne distaccava il Movimento 5 Stelle presieduto da Giuseppe Conte, sino a provocare la scissione del partito da parte dell’allora ministro degli Esteri Luigi Di Maio.

         Il volo della Meloni negli Stati Uniti, coinciso peraltro con quello attribuito al suo partito dall’ultimo sondaggio di Nando Pagnoncelli per il Corriere della Sera, che gli ha attribuito oltre il 30 per cento dei voti, contro il 19,3 del Pd di Elly Schelin e il 16,3 del movimento grillino, ha procurato alla premier  appezzamenti anche da parte di uno come Pier Ferdinando Casini. Che da cofondatore del centrodestra col compianto Silvio Berlusconi, Gianfranco Fini e Umberto Bossi, se ne distaccò a suo tempo avvertendolo troppo di destra. Ed è ora un senatore indipendente eletto sistematicamente nel Pd. “Giorgia è tornata sulla Terra”, ha detto Casini in una intervista ad Avvenire, il giornale dei vescovi italiani peraltro ben poco o per niente d’accordo con la politica estera del governo, considerandola troppo appiattita sugli Stati Uniti nella guerra in Ucraina.         

Ancora più decisamente contrari alla svolta della Meloni sono l’Unità di Piero Sansonetti, orgogliosa di essere stata fondata da Antonio Gramsci, e Il Fatto Quotidiano di Marco Travaglio. “Ma il famoso interesse nazionale?” ha chiesto l’Unità quasi rimpiangendo il “sovranismo” della destra. “Meloni l’ha venduto a Biden”, ha risposto. Il Fatto ha persino  parlato, diciamo così, con la voce e l’immagine di Gianni Alemanno, deriso ai tempi del Campidoglio anche come spalatore di neve nella città imbiancata e paralizzata. “Giorgia ormai è supina agli Usa e al liberismo”, ha detto al quotidiano di Travaglio l’ex sindaco di Roma  e leader della cosiddetta “destra sociale”. Ne è passata di acqua sotto i ponti del Tevere dal 1993, quando Berlusconi sdoganò l’ancora Movimento Sociale annunciando l’appoggio alla corsa capitolina  di Gianfranco Fini, ugualmente sconfitto da Francesco Rutelli

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Giorgia Meloni alla Casa Bianca come una balenotta di uguale colore

In quella foto-immagine di Giorgia Meloni alla Casa Bianca col presidente americano Joe Biden, per quanto non seguita -tra fantasie maliziose- da una conferenza stampa congiunta, c’è un po’ la rappresentazione plastica di ciò che si dice o si sussurra con maliziosa cordialità nei corridoi parlamentari italiani da qualche tempo della prima donna, e di destra, alla guida di un governo italiano. E che forse si comincia a condividere anche a livello diplomatico: che cioè la Meloni sia ormai la versione ridotta della “balena bianca” che a suo tempo fu data dal compianto Giampaolo Pansa alla Democrazia Cristiana. Diciamo, per le sue dimensioni fisiche, una balenotta bianca. Che -hanno titolato insieme due giornali affini per certe simpatie grilline come Il Fatto Quotidiano e La Notizia tutta digitale- sarebbe andata alla Casa Bianca a “inchinarsi” o “baciare la pantafola” del padrone di casa. Come usavano fare nella cosiddetta prima Repubblica i presidenti democristiani del Consiglio, fatta eccezione – in verità- per Aldo Moro. Che una volta  tornò da un viaggio negli Stati Uniti con la tentazione di ritirarsi dalla vita politica, tanto avvertì di essere stato guardato e ascoltato con diffidenza, a dir poco, dai suoi interlocutori, convinti ch’egli fosse troppo di sinistra.

         A sentire uno dei più illustri ex ambasciatori italiani negli Stati Uniti, Giovanni Castellaneta, intervistato dal Giornale e per niente abituato ai suoi tempi a farsi un’idea dei politici americani di turno al governo sentendo gestori e camerieri dei ristoranti italiani da loro frequentati, la Meloni o l’Italia della Meloni, come preferite, è ormai diventata “partner privilegiato” degli Stati Uniti. Biden non ha quindi esagerato a dire che ora lui e la premier italiana di destra sono diventati “amici”, in sintonia un po’ su tutti gli scacchieri della politica internazionale, anche quello cinese che la Meloni ha annunciato di volere conoscere meglio andando di persona a Pechino, dove è già stata invitata.

         Anche Claudio Cerasa, il direttore del Foglio che Marco Travaglio si diverte a sfottere come “ragioniere”, al modo in cui la buonanima di Fortebraccio sull’Unità sfotteva come “ingegnere” -ma ad honorem- il povero Alberto Ronchey, è convinto che “un mix fatto di atlantismo, europeismo, anti putinismo, e riequlibrio dei rapporti con la Cina” abbia “permesso alla presidente del Consiglio di portare avanti un’operazione solida, sorprendente e destnata forse ad avere un futuro: trasformare la politica estera non solo nel fiore all’occhiello dell’Italia ma anche in un argine trasversale contro gli estremismi di destra e di sinistra”. Come e forse ancor più della Dc di una volta, non più rappresentata dall’ultimo democristiano quale si compiace di definirsi, specie dopo la morte di Arnaldo Forlani, il quasi senatore a vita Pier Ferdinando Casini.

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Governo in visibilio tra la sfiducia alla Santanchè negata dal Senato e la Meloni da Biden

Governo in visibilio -maschile della “Visibilia” di Daniela Santanchè e dei suoi problemi- fra la sfiducia alla ministra del Turismo tentata dai grillini, sostenuta dal Pd e respinta ieri dal Senato con 111 voti contro 67 e la visita della premier Giorgia Meloni negli Stati Uniti. Dove il presidente Joe Biden torna a incontrarla, questa volta alla Casa Bianca dopo le tante occasioni già avute altrove di vederla e scambiarsi le idee, in occasione di summit internazionali.

         La sfiducia bocciata al Senato, o la fiducia confermata alla Santanchè, per quanto appena raggiunta da un’altra inchiesta giudiziaria a Bergamo, dopo quella di Milano, per la gestione delle sue aziende, avrà una replica alla Camera già annunciata dai grillini, sempre contando sull’aiuto del Pd di Elly Schlein. Ma sarà, appunto, un’altra sceneggiata come quella a Palazzo Madama, anche se fra gli stessi grillini e piddini si spera che gli sviluppi delle inchieste giudiziarie possano dividere la maggioranza, particolarmente nel caso, non certo imminente, di un rinvio a giudizio. Che potrebbe mettere in difficoltà particolarmente il partito della stessa Santanchè, e di Giorgia Meloni,  per i i suoi trascorsi un po’ giustizialisti. Ma hanno pure un loro significato due cose notate ieri al Senato. Dove il vice presidente leghista del Consiglio Matteo Salvini, volendo evidentemente smentire mal di pancia fra i suoi, ha tenuto ad affiancare in aula la collega di governo intervenuta per difendersi. E la capogruppo di Forza Italia Licia Ronzulli ha avvertito che bisogna tornare, se non cominciare a garantire quello che prescrive la Costituzione: la presunzione d’innocenza sino a condanna definitiva, ben oltre quindi un rinvio a giudizio ed eventuali condanne in primo e secondo grado.

         Sul viaggio della presidente del Consiglio negli Stati Uniti c’è ben poco da ridurne importanza e significato notando, come ha fatto qualcuno riprendendo certa stampa americana, che è “ristretto” il campo, o club, degli esponenti di destra ammessi a frequentare la Casa Bianca. La verità è che la Meloni -come osserva Il Foglio in un titolo di pima pagina- è volata oltre Oceano anche per “rinegare Trump in America”, continuando così ad aggiornare le vecchie posizioni della destra italiana, più d’opposizione che di governo. O di un governo nel quale sentirsi come in un abito troppo stretto.

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Il rimpianto della Democrazia Cristiana trent’anni dopo la scomparsa

Le celebrazioni, funerarie o di altro tipo, singole o combinate, a caso o apposta, servono anche a mettere in chiaro cose che prima erano confuse, o avvertite solo in parte.

         Arnaldo Forlani, per esempio, morto di recente a più di 97 anni, è stato solennemente e giustamente celebrato alla Camera quasi in coincidenza con i trent’anni trascorsi da una deliberazione del Consiglio Nazionale scudocrociato da molti considerata la fine della Dc. Ne fu allora autorizzato in effetti uno strano superamento con un ritorno all’indietro, all’originario Partito Popolare, formalizzato dopo qualche mese.

         Si è così ristabilito finalmente con nettezza che Forlani, l’uomo del potere discreto, che Antonio Di Pietro aveva tentato di liquidare plasticamente con quella saliva uscita dalle labbra durante un interrogatorio nel processo Enimont, fu davvero l’ultimo segretario della Dc per più di 50 anni cardine del sistema politico e istituzionale della Repubblica.

 Il Mino Martinazzoli, succedutogli nel 1992 per le spontanee dimissioni di un segretario che non era riuscito a farsi eleggere dai suoi parlamentari presidente della Repubblica, aveva già per la testa ben altro: un partito diverso nella sua apparente, fallace discontinuità. Che lo stesso Martinazzoli avrebbe poi sciolto ricorrendo ad un semplice telegramma, come gli avrebbe rinfacciato con sadismo per tutta la vita un Umberto Bossi che con la sua Lega ne aveva appena cominciato a raccogliere l’eredità elettorale al Nord.

         Ma che cos’era stata la Dc guidata per ultimo da Forlani? Solo il partito della “centralità” da lui rivendicata nel momento in cui, nel 1972, era stato costretto a rinunciare ai socialisti di Giacomo Mancini, usciti spontaneamente dal centro-sinistra per protesta contro l’elezione di Giovanni Leone al Quirinale, e a sostituirli con i liberali in un governo di Giulio Andreotti? Lo stesso Andreotti che, con Forlani ministro degli Esteri e Aldo Moro presidente del partito, avrebbe realizzato quattro anni dopo il primo dei due monocolori democristiani sostenuti dal Pci di Enrico Berlinguer all’insegna della solidarietà nazionale. Più centrale di così…,verrebbe da dire. Una centralità investita dallo stesso Forlani a Palazzo Chigi nel 1980 col recupero del Psi di Bettino Craxi nella maggioranza e poi col pentapartito, comprensivo di liberali e socialisti, guidato dallo stesso Craxi, poi da Ciriaco De Mita e infine da Andreotti, sempre lui, in ultima edizione di capo del governo.

         Proprio per quella sua centralità il compianto Giampaolo Pansa coniò per la Dc il nome di “balena bianca”, non immaginandone lo spiaggiamento. Marcello Veneziani sulla Verità ha appena sfornato, alla memoria, una serie pirotecnica di soprannomi, fra i quali: “il partito metafisico e ubiquitario”, “l’ultima autobiografia della Nazione”, “un minestrone”, “il seminterrato della coscienza nazionale”, “la metropolitana nelle viscere” del Paese, “il partito più di Pilato che di Cristo”, eccetera.

Ma, nel complesso, a parte il non confortante Pilato prevalso ancora una volta nella storia su Cristo, si avverte nell’articolo del fantasioso intellettuale di destra una certa nostalgia dello scudo crociato, che ebbe il pregio,  fra l’altro, di “vivere e lasciar vivere”, anche la destra appunto, associata ogni tanto all’elezione del Capo dello Stato, come nei casi di Antonio Segni e di Giovanni Leone, ma forse anche di Giovanni Gronchi, e una volta persino alla maggioranza del governo di Fernando Tambroni, nel 1960, a costo di scontri di piazza anche sanguinosi.

         In un eccesso di ottimismo o buona volontà il mio amico Marcello ha trovato nei tempi della Dc anche il vantaggio del “caldo, della pioggia e dei venti moderati”. In un eccesso invece di cattivo gusto che forse voleva essere solo spiritoso egli ha invece chiuso le sue confidenze scrivendo di rimpiangere “a volte” la Dc “in bagno, di nascosto, nel pieno delle funzioni corporali”. Come, in verità, capitò una volta di dire al compianto Antonio Martino, in una intervista, del centrodestra post-montiano di cui il suo amico Silvio Berlusconi, chiuso nella reggia di Arcore, parlava ottimisticamente dopo avere fatto poco, secondo lui, per rivitalizzarlo davvero liberandosi di alcuni consiglieri e assumendone altri.

         La stessa impietosa capacità d’analisi ho trovato -sul versante opposto- nell’articolo del direttore del Dubbio Davide Varì che ha appena raccontato della deriva giustizialista della sinistra: sia di quella rappresentata in Parlamento sia dell’elettorato del suo principale partito. Che naturalmente è ancora il Pd, per fortuna non o non ancora il movimento pentastellare o pentastellato di Giuseppe Conte, sotto sotto tentato quanto meno dall’aspirazione di prevalere anche su Elly Schlein.  Che  di tanto in tanto egli incontra e abbraccia nelle piazze, o con la quale accetta di bere una limonata in un bar, come a Campobasso di recente, prima del voto che avrebbe lasciato il Molise ancora di più nelle mani del centrodestra.

Pubblicato sul Dubbio

I colpi di sole e di grandine nei racconti della politica italiana

         La notizia del giorno, il 26 luglio di questa “pazza estate” lamentata anche da Matteo Renzi  sul suo Riformista, fra un’iniziativa e l’altra per liberarsi finalmente di Carlo Calenda e contendere al povero Antonio Tajani l’eredità elettorale del compianto Silvio Berlusconi, non è la maggiore crescita del pil intravista dal Fondo Monetario Internazionale. Che ha contribuito probabilmente a quell’”Italia oasi di stabilità e pace sociale” cantata dal Foglio e contrappposta ai problemi della Francia e della Germania, per non parlare della Spagna forse destinata a un altro turno anticipato di elezioni.

         No. Non è neppure la notizia della fiducia, addirittura, che sta per ottenere in Parlamento la tanto contestata ministra del Turismo Daniela Santanchè. O l’imminente partenza della premier Giorgia Meloni. Che, pur rauca dopo la debacle elettorale degli amici spagnoli di Vox, va a farsi consolare negli Stati Uniti direttamente dal presidente Joe Biden rafforzando ulteriormente la sua immagine internaziomale, per quanto in Italia continuino a dire peste e corna di lei la segretaria del Pd Elly Schlein e il capo dei grillini Carlo Conte, trovandosi almeno su questo d’accordo.

.        La notizia del giorno è quel Matteo Salvini, il leader leghista vice presidente del Consiglio e ministro delle Infastrututture, promosso dal Foglio “ingegnere” e sorpreso a riunire imprese e costruttori ai quali sembra finalmente “diventato serio”, da quella mina vagante della Meloni che era diventato, ma rappresentato dal Fatto Quotidiano come il muovo Nerone che suona e canta davanti alle fiamme che bruciano il Sud e la grandine e il vento che devastano il suo Nord. L’una e l’altra Italia che Salvini si sarebbe proposto di salvare con la costruzione del ponte sullo stretto di Messina e di un po’ di centrali elettorali nucleari. Che farebbero ormai così poca paura da poter affrontare e superare anche un referendum preventivo.

         Mi direte che Il Fatto Quotidiano è solo un giornale, come Libero che prende in giro la sinistra attribuendole l’addebito della grandine al fascismo tornato con la Meloni al governo. Un giornale, quello diretto da Marco Travaglio, un pò pazzo come questa estate e preso sul serio in Italia solo da Conte, ancora grato di essere stato promosso sulle sue pagine nelle due versioni di presidente del Consiglio, vissute fra il 2028 e il 2021, come il migliore successore di Cavour.  Altro che la buonanima di Alcide De Gasperi, il ricostruttore dell’Italia dopo la seconda guerra mondiale e quel presunto pallone gonfiato del vivente Mario Draghi, succeduto a Conte grazie al pugnale di Sergio Mattarella. Ma le stravaganze in Italia, si sa, hanno un loro fascino perverso.

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La solita corsa alle letture di parte delle elezioni stavolta spagnole

         Tutti ora, fra partiti e giornali, leader e notisti, tifosi e vignettisti, in una corsa frenetica e pericolosa nelle temperature di questa orrida estate, a ricavare lezioni e a darne in Italia dopo le elezioni spagnole. Che avrebbero fermato “l’onda nera” -ha titolato, per esempio, La Stampa- per la cocente, indubitabile debacle della destra di Vox sponsorizzata a Palazzo Chigi da una Giorgia Meloni ora afona, o quasi. La “raucedine” attribuitale sulla prima pagina del Corriere della Sera da Emilio Giannelli nella vignetta di giornata rende sicuramente bene l’idea della delusione procurata alla premier italiana dai suoi amici spagnoli.

         Eppure, come avverte sempre sulla Stampa nel suo commento Giovanni Orsina già nel titolo confezionatogli in redazione, “Vox ha perso ma la destra no” perché il partito popolare spagnolo, che non è certamente di sinistra, “ha migliorato del 50 per cento il risultato del 2019, passando da 89 a 136 deputati”. I socialisti del premier uscente Pedro Sanchez, cui la segretaria del Pd Elly Schlein si è aggrappata in Italia come ad un salvagente, hanno perso invece qualche seggio e possono sottrarsi all’opposizione solo scommettendo sull’alleannza con gli indipendentisti catalani, il cui leader è proprio in questi giorni a rischio di arresto. A meno che -all’italiana come nel 1976 con la “solidarietà nazionale” di conio moroteo ma anche in altre successive occasioni- i due maggiori partiti usciti dalle urne non si accordino per qualche soluzione di emergenza. E ciò anche  a costo di fare impazzire a Roma un Marco Travaglio che proprio oggi canta sul suo Fatto Quotidiano la contrarietà di Sanchez alle “ammucchiate”, come se quella con l’arrestando Carles Puigdemont non lo fosse.

         Tutto credo che sia prematuro dire e prevedere a proposito del voto spagnolo e delle sue ripercussioni altrove: da Roma a Bruxelles. Anche la certezza espressa sul Corriere della Sera dal mio amico Aldo Cazzullo che “non funzioni, almeno in Spagna ma probabilmente neppure in Europa” il centrodestra da esportazione sognato dalla Meloni. E ciò perché “i popoli dei grandi Paesi europei”, a dispetto del vento soffiato dalla Finlandia alla Grecia negli ultimi tempi, “non hanno tutta questa voglia di farsi stringere nella morsa tra i sovranisti e questa nuova versione, conservatrice e un po’ torva, dei popolari”. Ma “sono affezionati -ha scritto Cazzullo- ai diritti e alle libertà”.

         Più misurato, anche rispetto alla “botta per la Meloni” gridata con entusiasmo dall’Unità di Piero Sansonetti, mi sembra una volta tanto il ragionamento del Foglio nel titolo discorsivo sul “flop di Vox” che “fa bene” alla premier italiana, insegnandole che “non si può governare flirtando con gli estremismi”. “Vale in Spagna, vale in Europa. Il disastro di Vox -spiega Il Foglio- è un guaio per la Meloni di lotta ma un’opportunità per quella di governo”. Che, peraltro in partenza per gli Stati Uniti, potrebbe ora “ricalibrare l’asse e sbarazzarsi di altri fantasmi”.

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Le prediche inutili di Prodi (e Bonaccini) alla Schlein sulla radicalità “dolce”

Dalla “radicalità forte” -ricordate?-  raccomandata ad Elly Schlein da Carlo De Benedetti, non bastando  quella senza aggettivo di un suo libro recente, siamo appena passati alla “radicalità dolce”, o “soft”, consigliata da Romano Prodi. “Un ossimoro”, hanno commentato alcuni giornali, che pure avevano risparmiato questa definizione alla radicalità “forte” dell’ingegnere, considerando evidentemente la forza più congeniale, più naturale, più complementare alla radicalità che già di suo comporta un certo vigore. La dolcezza in effetti si coniuga più difficilmente con la voglia radicale di fare, o anche di non fare qualcosa.

  E’ radicale, per esempio, la voglia del guardasigilli Carlo Nordio, questa volta compatibile con le “priorità” o, più in generale, con il programma concordato fra i partiti della maggioranza di governo, e condiviso anche dal cosiddetto terzo polo, di separare le carriere dei pubblici ministeri e dei giudici. E’ altrettanto radicale la contestazione dell’associazione nazionale dei magistrati, o sindacato delle toghe, che vede in una simile riforma la voglia di sottomettere i pubblici ministeri al governo di turno privandoli dell’indipendenza, autonomia d quant’altro garantita a tutti i magistrati.

Di che tipo di radicalità abbia voglia la Schlein, a prescindere dal tipo e dal colore di abito che sceglie di volta in volta di indossare, con o senza la consulenza del caso, non saprei bene. E mi pare che non lo abbia capito neppure Prodi se, al termine del suo intervento alla sostanziale nascita della corrente allargata del presidente del Pd Stefano Bonaccini, chiamata “Energia popolare”, si è infastidito alle richieste dei giornalisti di esprimere un giudizio sulla segreteria attuale del Nazareno. Ad occhio e croce, data l’indifferenza opposta a tutti gli abbandoni del Pd dopo la sua elezione, che fossero di provenienti dalla sinistra democristiana o dal Pci, direi che la radicalità della Schlein non sia proprio dolce come consigliata da Prodi. Che al posto suo avrebbe probabilmente trattenuti tutti i dissidenti, comprendendone disagi e quant’altro.

Un sola volta il professore emiliano, con i suoi due governi di cosiddetto centrosinistra formati a distanza di dieci anni l’uno dall’altro, nel 1996 e nel 2006, mostrò una certa voglia di punire chi gli aveva messo i bastoni fra le rote, o disseminato la strada di chiodi. Fu nel 1998 reclamando il diritto di ottenere lo scioglimento anticipato delle Camere e di andare alle elezioni, dalle quali probabilmente sarebbe uscito con le ossa rotte Fausto Bertinotti, che gli aveva bucato le gomme fermando la corsa di governo alla quale il professore era stato autorizzato dagli elettori, prima ancora che dal presidente della Repubblica.

Ma Massimo D’Alema, l’azionista di maggioranza di quello che allora era l’Ulivo, spalleggiato al Quirinale da Oscar Luigi Scalfaro, non glielo permise preferendo succedergli subito e direttamente a Palazzo Chigi con un cambio di maggioranza. Nella quale il “sinistro” Bertinotti fu sostituito dal “destro” Francesco Cossiga. In compenso -va ricordato con onestà- D’Alema si prodigò davvero per la nomina compensativa di Prodi a presidente della Commissione europea, a Bruxelles. Da dove il professore emiliano sarebbe tornato per un altro sfortunato tentativo di governare in Italia per un’intera legislatura, interrotto questa volta, al di là delle dimissioni dell’allora ministro della Giustizia Clemente Mastella, dall’ex vice di Prodi alla prima presidenza del Consiglio, Walter Veltroni. Il quale aveva appena fondato e assunto la guida del Pd con la famosa “vocazione maggioritaria”. Che era un’aspirazione propedeutica ad una concezione di subalternità degli alleati al partito maggiore, con o senza apparentati. Fra i quali Veltroni ebbe, purtroppo per lui, l’infelice idea di preferire ai radicali ancora di Marco Pannella  i giustizialisti, a dir poco, di Antonio Di Pietro.

Alla luce di questa storia molto, forse troppo sintetica dell’avventura politica di Prodi -con entrambi i suoi governi di cosiddetto centrosinistra caduti anzitempo, e con la solidarietà umana che merita il suo dolore per la perdita, prematura anch’essa, dell’amatissima moglie Flavia- mi è francamente apparso eccessivo il clima quasi eroico nel quale egli è stato accolto a Cesena dagli amici e compagni di Bonaccini. E  ascoltato a distanza da una Schlein non trattenutasi abbastanza per ascoltarlo, per quanto gli debba il proprio decollo politico. Che risale al 2013, quando lei da sconosciuta, o quasi, predicò l’occupazione delle sezioni e sedi del partito per protesta contro i “traditori” che avevano appena impedito in Parlamento l’elezione di Prodi al Quirinale.

E’ vero, come si è detto appunto a Cesena e dintorni, che Prodi è l’ultimo ad avere vinto a sinistra le elezioni, sconfiggendo due volte Silvio Berlusconi all’esordio del cosiddetto bipolarismo. Ma, come ho già ricordato, senza riuscire poi a governare con le carovane allestite contro l’allora Cavaliere, che almeno una legislatura riuscì a governarla tutta da Palazzo Chigi col centrodestra, mancando le altre due occasioni: la prima a causa di Bossi, praticamente sfilatogli dalla maggioranza dall’allora capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro,  sempre lui, e la seconda per l’intreccio ancora misterioso, almeno in parte, fra una crisi finanziaria internazionale, la rottura interna al centrodestra con Gianfranco Fini e le spalle rivoltegli da Bruxelles e tradottesi in un sostanziale commissariamento della politica italiana gestito a Palazzo Chigi da Mario Monti.

Pubblicato sul Dubbio

Dalla Spagna non un vento, stavolta, ma un venticello di destra

         Pur contenta del successo anche personale conseguito ieri con la Conferenza euro-africana di Roma finalizzata, fra l’altro, al contenimento dell’immigrazione clandestina sulle coste dell’Ue, più ancora che italiane, la premier Giorgia Meloni ha dovuto seguire con una certa “trepidazione” -come riferisce Francesco Bechis sul Messaggero– le notizie che le giungevano dalla Spagna. Dove le elezioni anticipate volute dal premier socialista non hanno certamente premiato la destra Vox da lei sponsorizzata forse troppo appassionatamente. Un cui successo avrebbe potuto gonfiare le vele del progetto meloniano di esportare l’anno prossimo nell’Europarlamento il centrodestra al governo in Italia, pur con l’anomalo posizionamento della Lega di Matteo Salvini. Che in Europa preferisce la destra estrema a quella conservatrice.

         I parlamentari di Vox, stando ai risultati non ancora definitivi mentre scrivo, hanno perso quasi 20 dei 50 e più seggi di cui disponevano prima delle elezioni. E ad una maggioranza col Partito Popolare, tornato ad essere il primo in Ispagna, mancherebbero sulla carta almeno 7 dei 176 seggi necessari, con grande sollievo naturalmente dei socialisti di Pedro Sanchez, la cui sostanziale tenuta li mantiene in gioco.

         In pratica la Spagna che sta uscendo dalle urne ricorda in qualche modo l’Italia delle elezioni -anch’esse anticipate- del 1976. Dalle quali Aldo Moro, presidente della Dc, sostenne che fossero emersi “due vincitori”: la sua Dc, appunto, e il Pci di Enrico Berlinguer, ancora più preponderante a sinistra per il minimo storico, sotto il 10 per cento, conseguito dai socialisti allora guidati da Francesco De Martino. Ne conseguì una tregua fra democristiani e comunisti chiamata “solidarietà nazionale”, ma secondo molti poiettata, a torto o a ragione, verso il “compromesso storico” teorizzato qualche anno prima da Berlinguer pensando ad un’alleanza vera e propria fra i due maggiori partiti italiani, pur antagonisti elettoralmente.

         Diversamente però dal Moro del 1976, che negoziò con i comunisti prima l’astensione e poi l’appoggio esterno ad un governo monocolore democristiano guidato da Giulio Andreotti, il leader dei popolari spagnoli Alberto Nunez Feijoo sembra quanto meno tentato dalla costruzione di una maggioranza senza il concorrente di sinistra, anche a costo di provocare questa volta lui, come Sanchez nei mesi scorsi, lo scioglimento delle Camere e un altro turno di elezioni anticipate. Che difficilmente sembra destinato a procurare vantaggi alla destra di Vox, che ha perduto voti nelle urne di ieri soprattutto a vantaggio dei popolari. Con i quali tuttavia la premier italiana, leader del partito dei conservatori europei, è disposta ad allearsi a Strasburgo, ricambiata nelle sue speranze dal presidente del Ppe Manfred Weber e forse anche dalla presidente uscente della Commissione di Bruxelles Usrsula von der Leyen, pure  lei del Partito Popolare.

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