Gli ultimi sprechi d’odio contro Berlusconi nel giorno dei funerali di Stato

         A pochi giorni, o ore, di distanza sono tornati a incrociarsi drammaticamente i due protagonisti, o esponenti emblematici, della stagione bipolare della politica italiana cominciata nel 1994. Muore Silvio Berlusconi, il vincitore delle elezioni anticipate d quell’anno volute da un Achille Occhetto convinto di stravincerle e concesse al Quirinale da un Oscar Luigi Scalfaro insofferente ad ogni resistenza, e Romano Prodi, il primo antagonista riuscito poi a sconfiggere il Cavaliere, perde la moglie Flavia, mortagli fra le braccia vicino ad Assisi.

         Ci sarebbe da rimanere impietriti davanti a tanta tragica coincidenza, che dà la misura dell’imponderabile che sovrasta tutto e tutti. E da mettersi le mani fra i capelli di fronte agli ultimi sprechi d’odio di cui si sono rivelati capaci i nemici di Berlusconi contestandone gli odierni funerali di Stato -diventati “funerali dello Stato” nel titolo di copertina del Fatto Quotidiano– e il lutto nazionale proclamato dal governo. “Un lutto per dividere”, ha voluto titolare anche Repubblica con una decisione che forse non avrebbe preso il fondatore Eugenio Scalfari, tentato negli ultimi anni addirittura dall’idea di votare il pur odiato Berlusconi contro l’ancor più  odiato e, secondo lui, pericoloso Beppe Grillo.

         Non contento dei suoi titoli -dopo il “banana” dato ieri all’appena defunto ex presidente del Consiglio, il direttore del giornale ormai più spietato d’Italia  ha voluto insultare nel suo editoriale contro “la leggenda del santo corruttore” praticamente tutta la stampa e la televisione, anche quella che ne ospita quasi quotidianamente le opinioni e i lazzi, cioè la 7 di Urbano Cairo, per la presunta accondiscendenza verso un morto immeritevole di rispetto e umana pietà. “Agli innumerevoli delitti commessi da vivo. B. ne ha aggiunto un ultimo da morto”, appunto. “Il più imperdonabile”, ha aggiunto Travaglio spiegando: “averci lasciato questa corte di vedove (non le due vere e quella finta: tutte le altre), prefiche, leccaculi, paraculi, piduisti, terzisti, parassiti, prosseneti, camerieri, servi sciocchi e soprattutto furbi che da due giorni lacrimano per finta (solo lui riusciva a piangere davvero a comando) a reti unificate, devastando quel po’ di informazione e di dignità nazionale che gli erano sopravvissute”.

         Continua tuttavia ad esserci non dico un giornale diverso dal suo, né un partito o movimento ma almeno un uomo che consente a Travaglio di consolarsi. Si tratta naturalmente di Giuseppe Conte, l’ex presidente del Consiglio ingiustamente allontanato da Palazzo Chigi da Sergio Mattarella per sostituirlo prima con Mario Draghi e poi con Giorgia Meloni. A costui sono bastate le proteste di Travaglio per rimangiarsi alcune parole di rispetto sfuggitegli per il morto Berlusconi e annunciare il rifiuto di partecipare ai funerali unendosi -parole sempre del titolo del Fatto Quotidiano- a “Mattarella, Meloni, Schlein & C in Duomo”,  a Milano.  

Travaglio il più spietato, Renzi il più furbo di fronte alla morte di Berlusconi

E’ inutile che ve lo nasconda. Il primo giornale che ho avuto la curiosità di vedere oggi, con la notizia delle morte di Silvio Berlusconi su tutte le prime pagine, fatta eccezione per quella  volutamente distratta del Domani di Carlo De Benedetti, è stato Il Fatto Quotidiano. Che non ha disatteso le peggiori previsioni con quella specie di manifesto sulla “Repubblica del Banana” che Marco Travaglio spera forse sia morte col suo fondatore, protagonista e quant’altro.

         In un attacco di bile, quasi prevedendo il titolo “Ha vinto lui” che stava confezionando  Maurizio Belpietro sulla sua Verità, Travaglio ha così descritto lo scenario a suo avviso orrendo allestito per l’estremo saluto all’estinto: “E’ morto a 86 anni il fondatore di Fininvest e Forza Italia, capo di 4 governi, pregiudicato per frode fiscale, finanziatore della mafia e 9 volte prescritto. Le Tv lo beatificano a reti unificate. Domani i funerali di Stato con Mattarella e pure lutto nazionale”.

         Spero umanamente e cristianamente che qualche amico volenteroso non perda d’occhio il direttore del Fatto fra oggi e domani, specialmente domani, dopo che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella sarà entrato nel Duomo di Milano per omaggiare l’estinto e pregare per lui. Non vorrei che, desolato da tanto spettacolo. Il nostro facesse qualche pazzia, magari autolesionistica. O solo perdesse la fede rimuginando sul troppo sobrio titolo, forse, dedicato a Banana, come lui lo chiama, da Avvenire, il giornale dei vescovi italiani: “Addio a Berlusconi, leader che ha innovato. E diviso”.

         Se l‘oscar funerario, chiamiamolo così, del cattivo gusto o della ferocia politica se l’è guadagnato Travaglio, quello della furbizia spetta forse a Matteo Renzi. Che sul Riformista ha celebrato canoramente Berlusconi titolando “Come te non c’è nessuno”. E in concorrenza col Giornale ancora parzialmente di faniglia, che lo ha salutato come “l’ultimo Cavaliere”, ne ha scritto come solo potrebbe un ammiratore, un figlio adottato, un aspirante erede, un royal baby di ferraresca memoria -da Giuliano Ferrara- avrebbe potuto onestamente fare.

         “Berlusconi -ha raccontato quasi autobiograficamente Renzi- sorrideva perché amava la vita, perché l’ha gustata fino alla fine, perché era capace di ironia e autoironia. Ed è con quel sorriso, caro Presidente, che oggi ti salutiamo. Sei stato incontenibile e imprevedibile. Hai fatto saltare ogni schema, ogni protocollo. Ti ricorderemo come un uomo affamato di vita. Che la terra ti sia lieve”. Il controcanto è quello del già ricordato Ferrara sul Foglio, che si è firmato con nome e cognome in prima pagina, come Renzi sul Riformista, scrivendo così  del loro comune amico: “ Inutile ripercorrere il labirinto delle sue grandezze, dei suoi errori, delle sue sconcezze culturali, delle sue invenzioni clamorose, delle sue raffinatezze, del suo linguaggio benigno e oltraggioso, dei suoi incantamenti”.

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Quelle lontane complicità perdute con Silvio Berlusconi

Vi racconto non Silvio Berlusconi – sarei presuntuoso- ma quello che ho conosciuto – presentatomi a metà degli anni Settanta dal comune amico Roberto Gervaso, quando ero capo della redazione romana del Giornale fondato e diretto da Indro Montanelli- poi frequentato, poi ancora avuto come editore più volte, inutilmente consigliato su richiesta non so fino a che punto convinta e infine perso di vista, diciamo così. Ma anche di voce, non essendoci più nemmeno sentiti. Alla sua morte la vita mi consente di fornire una testimonianza utile forse a comprenderne la complessa personalità che altri -beati loro- ritengono di avere capito del tutto per condividerla o contrastarla.

                        Quando da semplice lettore e ammiratore del Giornale di Montanelli  egli divenne editore, peraltro acquistando anche la mia modestissima azione conferitami con l’assunzione, e non ero più da qualche anno capo della redazione romana ma editorialista politico, fui raggiunto dalla prima telefonata di Berlusconi. Che si lamentava di un controcorrente di Montanelli ancora fresco di stampa in cui l’allora segretario della Dc Flaminio Piccoli veniva preso in giro per avere “perduto anche quello che non ha, la testa” in una riunione di corrente, inveendo contro chi lo aveva criticato o solo chiesto chiarimenti sulla linea politica del partito. “Io -mi disse Berlusconi- sono orgoglioso di avere acquistato il Giornale ma non posso per questo finire di fare l’imprenditore. Non sarebbe utile neppure a voi”. Mi trovai in un imbarazzo fottuto, essendo stato io a fornire a Montanelli gli elementi di quel corsivo confidatimi da un giovanissimo Pier Ferdinando Casini neppure ancora parlamentare, ma straordinario nell’imitare Piccoli anche nella voce e nella mimica facciale.

                        Certo, non potevo vantarmene e tanto meno scusarmene con Berlusconi. Al quale mi permisi di chiedere solo se si fosse già doluto direttamente col direttore. Alla risposta fortunatamente negativa mi permisi di consigliargli di non farlo e di lasciarmi il tentativo di fargli quanto meno ridurre l’ansia che avevo colto nel suo sfogo. E così mi inventai, sempre al telefono, con Montanelli di avare appena raccolto da amici stretti e collaboratori di Piccoli il racconto di sue reazioni quasi isteriche e minacciose a quel controcorrente. Ne raccolsi l’effetto desiderato: un misto di compiacimento e di rimorso con la finale raccomandazione di dare alle nostre cronache e valutazioni “un pò di tregua” al segretario di un partito fra i cui elettori c’erano anche molti lettori del nostro Giornale: la stessa cosa- devo dirvi- che egli dopo qualche anno mi sottolineò quando a Piccoli subentrò alla guida della Dc Ciriaco De Mita. Col quale però le cose sarebbero finite peggio, con uno scontro a sbocco giudiziario, avendogli Montanelli dato ad un ceto punto del mezzo mafioso o camorrista. Ma in quel momento io  per fortuna non ero più al Giornale, essendosi le nostre strade separate per una diversa valutazione del craxismo. Che certa Dc cominciava a soffrire avvenendo il rischio di perdere Palazzo Chigi, oltre ai voti.

                        Vi lascio immaginare il sollievo e il ringraziamento ricevuti da Berlusconi per avere indotto Montanelli ad una tregua nei rapporti col segretario trentino della Dc.

                        Vi risparmio altri passaggi per saltare alla mattina in cui, da direttore del Giorno, dove peraltro ero arrivato verso la fine degli anni Ottanta dalla postazione di direttore del primo telegiornale della Fininvest berlusconiana chiamato americanamente “Dentro la notizia”, raccolsi per telefono un altro sfogo del Cavaliere. Era contro il nostro comune amico Bettino Craxi, che prima lo aveva incoraggiato a scalare la Mondadori, anche a costo di indebitarsi moltissimo, e poi aveva permesso al presidente del Consiglio Giulio Andreotti di puntargli “quasi la pistola alla testa” per chiudere con un compromesso la vertenza apertasi con Carlo De Benedetti ed Eugenio Scalfari, decisi a non lasciargli il controllo anche di Repubblica e giornali locali.

                        Interpretai, a torto o a ragione, quello sfogo come una richiesta di intervento su Craxi, come quella volta su Montanelli per Piccoli. Il risultato fu un altro sfogo, opposto, di Bettino sorpreso dalle complicazioni giudiziarie della scalata alla Mondadori esclusegli da Berlusconi quando gliene aveva parlato. Lo sfogo si concluse comunque con la promessa di spiegare personalmente all’interessato come e perché non fosse il caso di scartare la ricerca del compromesso affidata da Andreotti all’amico Giuseppe Ciarrapico. Che era destinato peraltro a diventare curiosamente senatore nelle liste del Pdl creato da Berlusconi nella sua esperienza politica, dopo la fondazione di Forza Italia.

                        Facciamo un altro salto per arrivare ad una domenica dei primi anni Novanta nella tribuna d’onore dello stadio milanese di San Siro, dove ero spesso ospite sicuramente di Adriano Galliani ma non ho mai ben capito se anche di Berlusconi, col quale tuttavia parlavo di frequente. Ebbene, mentre tirava una brutta aria per il sindaco milanese Paolo Pillitteri, comune amico e cognato di Bettino,  commentai la fila che facevano gli spettatori per scavalcare le separazioni delle tribune e ottenere da Berlusconi un autografo. Mi venne l’idea, forse infelice, di chiedergli se non gli potesse venire  davvero la voglia, attribuitagli da qualche parte, di candidarsi a Palazzo Marino. Ne ottenni non una risposta ma una smorfia indecifrabile, che capii meglio qualche giorno dopo, quando venne fuori sui giornali una frase in dialetto milanese della sorella di Bettino, e moglie del mio amico Paolo, sulla necessità che ognuno facesse il proprio mestiere. Altro che sindaco di Milano, il Cavaliere era però destinato a “scendere” -avrebbe detto lui stesso- in politica puntando direttamente a Palazzo Chigi.

                        A proposito di quella discesa, maturata ed avvenuta quando io avevo lasciato la direzione del Giorno e rientrato in Fininvest per i commenti a Parlamento in, pur non essendo mai stato invitato ad alcuna riunione preparatoria, ma solo investito dell’incarico di qualche incontro con i dipendenti di Pubblitalia per aiutarli alla lettura e interpretazione dei giornali, mi sentii chiedere dal comune amico Fedele Confalonieri di consigliare “a Silvio” di non mettersi in politica. Rifiutai ritenendo di non averne il diritto perché mai invitato dall’interessato in prima persona ad esprimere un parere, Seguì una proposta di fargli da portavoce, una “specie di Intini per Silvio”. Io risposi che bisognava sapere bene che cosa Berlusconi avesse in testa di fare. E lui, Fedele, pronto a cercare Berlusconi al telefono per farmelo spiegare. E lui, Berlusconi, a sua volta, parlandomi da un’auto, di cui avvertivo il rumore del motore, fece finta di non avere deciso ancora di preciso che cosa fare. Pertanto mi chiese finalmente con chi gli consigliassi di allearsi nel caso in cui avesse voluto compiere il grande passo,

                        Informato da qualche settimana per altre vie della proposta fattagli o ventilatagli dall’allora segretario della Dc Mino Martinazzoli di lasciarsi candidare da indipendente nelle liste scudocrociate al Senato, come era avvento nel dopoguerra con Cesare Merzagora, che ne sarebbe poi diventato il presidente, mi permisi di consigliare a Berlusconi l’accordo, appunto, con i democristiani. Ma quelli -mi rispose- hanno già Mario Segni candidato a Palazzo Chigi. E io gli chiesi quanto tempo pensasse che avrebbe potuto durare lì il pur comune amico Mariotto. Dopo il quale egli avrebbe ben potuto giocare qualche carta per succedergli. “Ma -mi rispose il Cavaliere- quelli della Lega mi hanno già proposto la presidenza del Consiglio”. Nacque così la Casa della Libertà e tutto il resto.

                        Mi rimase solo la soddisfazione, ad elezioni concluse nel marzo del 1994, di fagli notare, in un occasionale incontro nei corridoi di Montecitorio, mentre io avevo già cominciato la pratica del pensionamento anticipato all’istituto previdenziale dei giornalisti, di fargli notare che l’allegra macchina da guerra di Achille Occhetto sarebbe stata ugualmente sconfitta, ma da una coalizione di centro, se lui non avesse incoraggiato la diaspora democristiana scommettendo su leghisti e missini peraltro incapaci di stare insieme nelle stesse liste di coalizione al Nord e al Sud. Non a caso, del resto, il suo primo governo sarebbe stato rapidamente rovesciato da Bossi.

                        Ci ritrovammo qualche altra volta, per esempio attorno alla bara di Craxi appena interrata ad Hammamet, ma sempre di meno, fino a niente. La terra le sia lieve, presidente, visto che in una vita non certo breve non siamo mai riusciti a darci neppure del tu, come in tanti invece si sono presi il permesso, o ai quali è stato concesso di fare per poi litigare fra le proteste e gli insulti di cortigiani, più che di amici.

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it il 18 giugno

E’ davvero finita l’avventura irripetibile di Silvio Berlusconi

Alessandro Sallusti, il giornalista che in fondo gli è stato il più fedele fra quanti ne hanno accompagnato l’avventura politica, col fiuto del vecchio cronista e dell’amico sinceramente  allarmato si era lasciato scappare l’altro ieri su tutta la prima pagina di Libero un “cribbio” disperato apprendendo dell’improvviso, nuovo ricovero di Silvio Berlusconi in ospedale a Milano. Da dove era appena uscito dopo 45 giorni di ricovero in gran parte in terapia intensiva. “Ci risiamo”, aveva aggiunto il direttore del quotidiano peraltro sulla strada del ritorno alla guida del Giornale appena entrato nel portafogli della famiglia Angelucci.

         Proprio la cessione del Giornale fondato nel 1974 da Indro Montanelli è stata l’ultima e forse più dolorosa operazione dell’ormai compianto Cavaliere. Che aveva soccorso Montanelli come editore in un momento di grandissima difficoltà, quando il Giornale nato da una clamorosa scissione del Corriere della Sera rischiava di chiudere e Berlusconi si disse orgoglioso e onorato di dargli una mano. Gli scrisse anche una lettera -poi venuta fuori al momento della rottura, nel 1994- per assicurargli che il “padrone” del quotidiano sarebbe rimasto quello che lo aveva fondato. Lui, l’editore, avrebbe solo rimesso i soldi, e quanti. 

         A dividere la coppia fu la politica, Quella passionaccia dalla quale Berlusconi si sarebbe lasciato conquistare un po’ per interesse, volendo mettere le sue aziende al riparo dalle rappresaglie di chi le riteneva procurate al Cavaliere dal Caf inteso come acronimo di Craxi, Andreotti e Forlani, ma un po’ davvero per amore verso l’Italia. Che non fu solo una trovata propagandistica nel messaggio letto nella sua villa di Arcore davanti ad una telecamera che solo lui aveva potuto foderare di una calza per migliorarne il rendimento cromatico.

         La sua discesa in politica, a dire il vero, non fu tra le più lineari, circondato del resto da amici e familiari che gli sconsigliavano la politica conoscendone la imprevedibilità e spietatezza. All’inizio sembrò interessato più a favovire altri nell’azione di contrasto ai comunisti sopravvissuti alla caduta del muro di Berlino che ad esporsi in prima persona. Fu davvero a un passo dall’intesa con Mariotto Segni, che Umberto Bossi invece mandò a quel paese come un antesignano di Beppe Grillo ordinando a Bobo Maroni di togliersi dalla traiettoria della sua pur metaforica pistola. Fu proprio Bossi a convincere Berlusconi di candidarsi lui direttamente a Palazzo Chigi, salvo metterlo in croce in campagna elettorale e a rovesciarlo in pochi mesi, dopo averlo subito alla presidenza del Consiglio. Uno scenario, francamente, più da far west che da politica sofisticata. Eppure Berlusconi non si sarebbe lasciato vincere dallo sconforto. Ricominciò a tessere la tela strappata dal capo leghista, a ricostituire il centrodestra e a riportarlo al governo facendo letteralmente impazzire una sinistra che riteneva di avere preparato ben bene la conquista non del governo soltanto ma dello Stato dopo avere decapitato la cosiddetta e odiata prima Repubblica. Achille Occhetto, Massimo D’Alema e compagni non avevano previsto di dover fare i conti con lui, che un giorno sì e l’altro pure li faceva tremare col fantasma di Craxi, anche dopo la sua morte.

         Il centrodestra sottovalutato e deriso dagli avversari, con Berlusconi trascinato in tribunale addirittura per prostituzione minorile, da cui sarebbe stato assolto senza per questo chiudere i processi a grappolo partoriti dalla fertile immaginazione delle Procure, si è sviluppato, ha avuto una sua evoluzione radicale su cui prima o dopo professori e simili dovranno pure riflettere. Berlusconi ha perduto progressivamente centralità, pur sbandierata in pubblico a dispetto di risultati elettorali sempre più modesti, ma è riuscito a lasciare al Paese una destra di cui la sinistra non riuscirà facilmente a liberarsi. Una destra che forse riuscirà a cambiare l’anno prossimo gli abituali equilibri politici anche dell’Unione Europea.  

         Ora si aprirà davvero il problema della successione a Berlusconi, non credo proprio destinata a seguire criteri familistici perché senza di lui tutto è destinato a cambiare da quelle parti. La sua è stata davvero un’avventura personale, personalissima, direi inimitabile.

La guerra punica di Giorgia Meloni che non riuscì neppure ad Andreotti

         Con quella “Scipiona l’africana sparata su tutta la prima pagina di Libero riferendo del “patto di Cartagine” che Giorgia Meloni è andata a stringere col presidente tunisino Kais Saied, portandosi appresso la presidente tedesca della Commissione europea di Bruxelles e l’olandese Mark Ruttle , il buon Alessandro Sallusti è riuscito dove neppure a Giulio Andreotti fu possibile. Farsi coinvolgere -disse una volta l’allora presidente del Consiglio a Indro Montanelli che avevo accompagnato da lui per una visita di cortesia nei primi anni del Giornale- “anche in qualcuna delle guerre puniche”. Montanelli che già aveva per conto suo un debole per Andreotti, ammirandone l’arguzia e la conoscenza come nessun’altro della macchina dello Stato, uscì dall’incontro dicendomi che contro quel “mostro” non c’era partita per nessuno. E rise di cuore quando gli inquirenti di Palermo lo immaginarono baciato da Totò Riina.

         La Meloni è andata a Tunisi per due volte in pochi giorni piena di soldi e di buone intenzioni per evitare che dalle coste di quel Paese l’Italia finisca travolta da un’ondata di immigrazione per il fallimento di uno Stato che molti negli anni scorsi si erano abituati a considerare solo un conveniente luogo di vacanza, il rifugio di Bettino Craxi. Pare che la premier italiana non si capaciti dei dubbi nutriti contro Kais Saied dal presidente americano Joe Biden, di cui pure la prima donna a Palazzo Chigi è riuscita a conquistarsi la fiducia e la simpatia sul fronte  non certamente secondario della guerra di Putin all’Ucraina.  

         I gufi in Italia stanno già scommettendo sulla guerra punica che la Meloni potrebbe perdere in Italia. Dove il più interessato ad un suo fiasco , pur non immaginando di potervi costruire sopra chissà che cosa, è Giuseppe Conte ringalluzzito come un pavone per essere stato l’unico oppositore ammesso da Bruno Vespa nella masseria pugliese che sostituisce d’estate la sua terza Camera, come Andreotti -sempre lui – definì la trasmissione Porta a Porta.

         Con gli immigrati Conte ha già pasticciato abbastanza nei due passaggi a Palazzo Chigi, prima assecondando e poi sgambettando il suo ministro dell’Interno Matteo Salvini, ancora alle prese con un processo per sequestro di persone e altre nefandezze risparmiategli quando i due andavano d’accordo e poi rifilatogli a rapporti interrotti. Ma è assai improbabile, per quanto astuto cerchi di mostrarsi, che l’ex presidente del Consiglio possa tornare a Palazzo Chigi portato dagli inmigrati della Tunisia e degli altri paesi interni dell’Africa .

Elly Schlein va a cercare alleanze e simpatie al gay pride di Roma

         Fallito il tentativo di arruolare anche Giuliano Amato nella Resistenza, con la maiuscola, ad una Giorgia Meloni dall’incedere sempre più ”autoritario”, la Repubblica è tornata a scommettere su Romano Prodi nella sua festa annuale a Bologna, stavolta favorita dall’assenza dalle edicole del concorrente Corriere della Sera, appiedato da uno sciopero di due giorni di straordinario autolesionismo.

         Prodi ha soddisfatto -credo- le attese dell’operazione anche a costo di rovesciare la posizione  assunta nei rapporti con Elly Schlein qualche tempo fa,  quando la invitò -appena eletta alla segreteria del Pd- di occuparsi prima della identità del partito e poi delle sue conseguenti alleanze.  Ora invece l’ex presidente del Consiglio ha ammonito la sua fan- salita sul palcoscenico della politica nel 2013 protestando contro la mancata elezione dello stesso Prodi al Quirinale, tradito nelle urne di Montecitorio da ben più dei 105 formali franchi tiratori- che “se vogliamo perdere continuiamo ad andare avanti divisi. Per la vittoria -ha detto- serve un’ampia coalizione”. Possibilmente più coesa -mi permetterei di aggiungere- delle combinazioni di cosiddetto centrosinistra, o uliviste, da lui formate nel 1996 e nel 2006 per durare in entrambe le occasioni meno di due anni: la prima volta salvando la legislatura con i recuperi dei governi di Massimo D’Alema e di Giuliano Amato, la seconda portandosi appresso nella rovinosa caduta le Camere.  E restituendo direttamente Palazzo Chigi a Silvio Berlusconi. Questo per mettere le cose, diciamo così, al loro posto nella cronaca, se vi sembra troppo parlare di storia.

         La Schlein, non so francamente se più per rispondere alle attese di Prodi o per lasciare ostinatamente invariata la sua agenda, è corsa in piazza a Roma a cercare alleanze e compagnia al gay pride, reso ormai famoso dal patrocinio negatogli all’ultimo momento dell’amministrazione regionale di centrodestra per non finire patrocinatrice anche della cosiddetta maternità surrogata: il ricorso all’utero in affitto per fornire di figli anche le coppie che non possono produrne per omosessualtà o eterosessualità infeconda.

         Così la nuova e sfortunata segretaria del Pd, visto il suo poco felice esordio nelle elezioni amministrative del mese scorso, si è trovata in festosa compagnia col pubblico gay e arcobaleno provvisto, fra i tanti cartelli e magliette emblematiche della festa, di uno che reclamava con tanto di rima “-Meno Meloni+ricchioni e di una che opponeva “sorelle d’Italia” ai “fratelli d’Italia” dell’odiata premier italiana.

         Immagino le reazioni più o meno intime   dei tanti che nel Pd aspettano con crescente insofferenza un chiarimento politico e provengono sia dalla sinistra democristiana sia dal Pci: il partito , quest’ultimo, che fu della orgogliosa ex ministra delle pari opportunità Anna Finocchiaro, appena distintasi per  un appello a non lasciare alla destra la lotta alla maternità surrogata.

Ripreso da http://www.policymakermag.it e http://www.startmag.it

Un altro passo avanti verso la successione a Silvio Berlusconi

         Per quanto generalmente contenuta nei richiami di prima pagina sui giornali -ma con l’eccezione non marginale del simpatizzante Libero, che ne ha fatto l’apertura gridando “Berlusconi ricoverato- Cribbio, ci risiamo”- la notizia del ritorno dell’ex presidente del Consiglio in ospedale, dal quale era appena uscito dopo 45 giorni di degenza in gran parte trascorsi in terapia intensiva, ha un innegabile rilievo politico. E non solo nell’area più ansiosa o diretta del centrodestra, ma anche in quella limitrofa almeno del cosiddetto terzo polo. Dove il più smanioso di raccogliere almeno una parte dell’elettorato di Berlusconi è notoriamente Matteo Renzi, il già “royal baby” berlusconiano confezionato editorialmente da Giuliano Ferrara,  per investirne il risultato nel tormentato rapporto non tanto con Carlo Calenda quanto col Pd. Che è sempre più scoperto sul versante riformista dopo l’arrivo e l’infelice esordio elettorale di Elly Schlein alla segreteria del Nazareno.

         Berlusconi è dovuto tornare in ospedale rinunciando all’incontro che aveva pur programmato con cura con i ministri della sua Forza Italia e a missione non ancora conclusa in Italia del presidente del Partito Popolare Europeo Manfred Weber.  Che Antonio Tajani era riuscito a recuperare, diciamo così, dopo la clamorosa rinuncia dell’ospite tedesco ad una analoga riunione nei mesi scorsi per l’ennesimo tentativo compiuto da Berlusconi di giustificare in qualche modo l’aggressione di Putin all’Ucraina.

         Anche i problemi che Berlusconi ha personalmente nel Partito Popolare Europeo, pur impegnato anche lui nella realizzazione di un centrodestra nell’Unione dopo le elezioni continentali dall’anno prossimo, hanno la loro rilevanza ai fini di una sua eventuale successione e di una diversa configurazione dell’area che lui riuscì a realizzare nel 1994 entrando, anzi scendendo in politica, come preferì dire e ancora ripete.

         In una intervista recentissima a Repubblica già da me segnalata per altri versi, in particolare per il rifiuto opposto al tentativo di arruolarlo nella guerra politica alle presunte tendenze autoritarie di Giorgia Meloni, il presidente emerito della Corte Costituzionale Giuliano Amato ha evocato senza remore, o scrupoli personali, essendo nota la stima reciproca fra i due, il problema della successione a Berlusconi tutto interno, secondo lui, al centro destra.

         “Con la scomparsa di Berlusconi dalla scena pubblica -aveva detto testualmente Amato, prima del ritorno a sorpresa dell’interessato in ospedale- s’apre, per chi ne ha il coraggio in questa destra, la porta per il centro politico. Potrebbe essere una considerevole tentazione andare a occuparlo” da parte della pur non menzionata Meloni.  Cui tuttavia sono chiari i riferimenti di Amato dopo avere contestato -ripeto- la rappresentazione autoritaria della premier italiana fatta di recente da Romano Prodi e dal premio Nobel Joseph Stiglitz.

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Giuliano Amato renitente alla leva contro l’autoritarismo della Meloni

Più Giorgia Meloni si nuove, più occupa la scena nazionale e quella internazionale, vola a Tunisi, rientra a Roma per incontrare il cancelliere tedesco e prepara un altro viaggio in Tunisia facendosi accompagnare stavolta della presidente della Commissione Europea, più i suoi avversari finiscono per ritrovarsi sotto l’arco di Tito a cacciare farfalle. Cioè a inseguire qualcuno che riesca ad assomigliare, quanto meno, ad un capo o a un punto di riferimento delle opposizioni divise e claudicanti. E’ uno spettacolo francamente surreale.

         Repubblica, per esempio, spara giovedì 8 giugno su tutta la sua prima pagina un’intervista al presidente emerito della Corte Costituzionale Giuliano Amato, due volte presidente del Consiglio, per fargli intimare: “Meloni rompa con Orbàn”. Ma il giorno dopo, venerdì 9 giugno, è già costretta a titolare che non per ordine di Amato ma per libera scelta della stessa Meloni “l’Italia non vota con Orbàn” a Lussemburgo nel Consiglio europeo dei ministri dell’Interno sul problema dei migranti.

         Ancora più chiaramente o decisamente la consorella Stampa, che da Torino affianca Repubblica, annuncia che “Meloni rompe con Orban”, che nell’occasione perde anche l’accento sulla seconda vocale del cognome. Le cose cambiano insomma senza che i giornali fiancheggiatori o sostituti delle opposizioni riescano a tenerne il passo.

         Nella stessa intervista dell’8 giugno a quella specie di “papa straniero” delle opposizioni Repubblica riceve da Amato più smentite o correzioni che conferme alle tante domande e osservazioni contro la premier: un Amato insomma più vicino che lontano da Sabino Cassese e Luciano Violante liquidati qualche giorno prima sprezzantemente sul Fatto Quotidiano come “i patrioti di Giorgia”.

         Invitato, per esempio, a riconoscersi in “due persone solitamente misurate come il premio Nobel Joseph Stiglitz e l’ex primo ministro Romano Podi che hanno lamentato una lenta erosione degli strumenti democratici in Italia, con il rischio di una involuzione autoritaria”, Amato si smarca rispondendo: “Ho qualche dubbio che questo sia vero. Vedo tracce di una fragilità crescente della democrazia nel nostro paese, ma le vedo ancora di più negli Stati Uniti. Ora il disfacimento di alcuni fili importanti della nervatura democratica può portare a un indebolimento delle istituzioni, ma non vedo quel rischio autoritario denunciato da Stiglitz e Prodi”.

Non è poi detto per niente -aggiungo io- che a quel “disfacimento di alcuni fili importanti della nervatura democratica” operi solo la Meloni e non anche la nuova segretaria del Pd Elly Schlein, per esempio, quando non soccorre una ministra alla quale viene pubblicamente impedito dai contestatori di parlare di un suo libro autobiografico e dei temi di sua competenza governativa.

         Invitato a pronunciarsi contro il “reato universale” della maternità surrogata perseguito dalla Meloni, l’ex presidente del Consiglio riconosce sì che è sostanzialmente una sciocchezza tecnico-giuridica ma avverte: “Fui io a scrivere parole di fuoco contro la maternità surrogata nella sentenza della Corte Costituzionale. Lo ricordo perché non vorrei che l’attuale crociata della destra spingesse il Pd ad una sua difesa ad oltranza. La maturità surrogata “offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane”, come sta scritto nella sentenza”.

         Spinto a difendere la Corte dei Conti “privata per decreto del potere di controllo sul piano nazionale di ripresa e resilienza”, Amato preferisce ricordare che “il controllo concomitante della Corte dei Conti era stato introdotto con saggezza da Renato Brunetta nella sua riforma della pubblica amministrazione del 2009. Era il classico “controllo collaborativo” che una norma a mio avviso sbagliata -introdotta dal governo Conte 2, quello con il Pd- ha trasformato in “controllo punitivo” con la segnalazione degli amministratori responsabili. Togliere completamente quel controllo -ha spiegato Amato- è un errore. Sarei stato più elegante: l’avrei ripristinato nel modo collaborativo in cui l’aveva pensato Brunetta, sopprimendo gli aspetti punitivi che spingono gli amministratori a non fare”. Elegante, dice  di sè l’ex presidente del Consiglio giustamente noto come “dottor Sottile”, non confondibile con difensori tout court di una Corte dei Conti violentata, stuprata e quant’altro dal governo.  Assediata come una fortezza da facinorosi abituati a delinquere.

         Infine, ma solo per ragioni di spazio, non per ricchezza di spunti e sorprese, Amato viene trascinato sulla strada delle polemiche contro il cosiddetto premierato che comprometterebbe la figura di garanzia del presidente della Repubblica, del quale peraltro anche lui aveva sostenuto molti anni fa l’elezione diretta. “Anche nel caso del premierato mi pare -dice l’ex presidente del Consiglio- stia prevalendo una linea più morbida. E’ stata scartata infatti l’elezione solitaria del premier. Davanti ad un primo ministro che ha la legittimazione popolare diretta la figura del capo dello Stato perderebbe la sua autorevolezza. Quindi si sta andando verso una strada già battuta in passato, ossia la possibilità per i cittadini di indicare nella scheda per il Parlamento il leader che si vuole come presidente del Consiglio, con in più la fiducia parlamentare solo a lui e non anche ai ministri”, che sarebbero così revocabili e sostituibili senza tante storie di partiti, correnti e sottocorrenti.

“Sarebbe- spiega Amato- una riforma costituzionale molto limitata, probabilmente condivisa da buona parte del centro-sinistra, e che non andrebbe così al referendum che-come sa bene la presidente Meloni- è sempre un rischio per il governo”. Se fossi la Meloni, terrei conto di queste parole. E ringrazierei.

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it l’11 giugno

Il Parlamento non se la passa così male come lamentano le opposizioni

         Fra i tanti danni, veri o presunti, attribuiti alla prima donna, e di destra, alla guida del governo in Italia ci sono quelli che avrebbe inferto al Parlamento, già sacrificato peraltro da non pochi dei suoi predecessori, riducendolo ad un votificio, per giunta monocamerale.  Quel poco di discussione e capacità di modifiche rimasto vale   di fatto in una sola assemblea, essendo l’altra condannata, sempre di fatto, solo a ratificare ciò che le arriva per ragioni di tempo, poiché si tratta prevalentemente di decreti legge che vanno approvati entro sessanta giorni.

         Alle opposizioni, ma anche ai gruppi della maggioranza, dove ogni tanto qualcuno vorrebbe quanto meno distinguersi da altri esponenti o parti della coalizione di governo, rimarrebbero solo esercizi più o meno ludici di resistenza ostruzionistica buttando fra i piedi del governo centinaia di inutili ordini del giorno, da mettere in votazione prima di chiudere davvero la partita.

         Lo stato, diciamo così, depressivo del Parlamento imposto o aggravato dal governo in carica di centrodestra, o di destra-centro come rivendicano o lamentano vari politici e analisti, non impedisce tuttavia alle Camere di trovare e vivere momenti di una certa, e per fortuna allegra emozione. La giovane deputata grillina Gilda Sportiello, di 36 anni e già alla sua seconda legislatura, per quanto il suo movimento sia uscito praticamente dimezzato dalle elezioni dell’autunno scorso, ha appena potuto allattare il suo piccolissimo Federico nell’aula di Montecitorio fra gli applausi del marito o compagno, qualche fila più sotto, di altri partecipanti alla seduta e del presidente di turno, il forzista Giorgio Mulè. Del quale sono mancati solo gli auguri al bebè di arrivare prima o dopo anche lui in quell’aula non al capezzolo della madre ma salendo e scendendo le scale dell’emiciclo con le proprie gambe, da deputato eletto chissà con quale partito, non potendosi obiettivamente prevedere una vita così lunga per il movimento della mamma e del papà.

         Le senatrici di solito solo più anziane o meno giovani delle deputate. Non hanno figli da allattare, salvo sorprese naturalmente. Qualcuna però ha dei cani dai quali vorrebbe farsi accompagnare a Palazzo Madama, almeno negli uffici o nei corridoi, visto che una proposta animalista di modifica al regolamento, o qualcosa di simile, non si spinge sino a prevederne la presenza nell’aula dell’assemblea o in quelle delle commissioni. La proposta è di una ex forzista, e pasionaria di Silvio Berlusconi: la bolzanina Michaela Biancofiore, già alla sua quinta legislatura, fra l’uno e l’altro ramo del Parlamento, e passata anche per un governo come sottosegretaria alla pubblica amministrazione.

         Il solitamente truce presidente del Senato Ignazio La Russa, da proprietario anche lui di un cane, naturalmente un pastore tedesco, ha promesso alla Biancofiore di sostenerne la causa, pur precisando che il suo animale continuerà a lasciarlo a casa. Forse teme che al Senato glielo avvelenino.

Ripreso da http://www.policymakermag.it

Le assoluzioni che possono dare speranze anche a Massimo D’Alema

Buone notizie per Massimo D’Alema nell’ultima versione di indagato, perquisito, intercettato – ora che non ha più uno straccio di protezione parlamentare- per corruzione internazionale e non so quant’altri reati potranno essergli contestati dai magistrati di Napoli che indagano sulle commesse militari alla Colombia che l’ex presidente del Consiglio avrebbe cercato, per quanto inutlmente, di favorire per trarne con altri qualche utile personale.

         Il povero Bruno Contrada, ridotto fisicamente alquanto male per il combinato disposto dei suoi 91 anni e delle condizioni nelle quali ha vissuto gli ultimi trenta, fra sbarre, tribunali e varie, ha finalmente ottenuto dalla Cassazione il diritto di ottenere dallo Stato più di 285 mila euro di risarcimento danni per ingiusta detenzione. Cui è stato sottoposto  per l’accusa di avere tradito lo Stato nelle sue funzioni di alto dirigente della Polizia e dei servizi segreti per favorire la mafia.

         Lo psicoterapeuta Claudio Foti è stato appena assolto in un processo, costato caro anche agli amministratori democristiani del Comune di Bibbiano, in cui era stato scambiato per un mezzo trafficante di bambini, sottratti a genitori problematici per essere affidati a coppie amiche.

         Il cosiddetto tribunale dei ministri di Brescia ha archiviato le accuse all’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte e all’ex ministro della Sanità Roberto Speranza di avere non contrastato ma favorito praticamente la diffusione del Covid aumentandone i morti. “Ipotesi neppure astrattamente configurabile”, hanno valutato i giudici “insegnando anche ai pubblici ministeri come si fanno le indagini”, ha commentato sul Fatto Quotidiano il direttore in persona Marco Travaglio derogando all’abitudine di sostenere gli inquirenti, difendendoli dai sospetti e dalle accuse dei garantisti. Matita rossa, questa volta, anche nel titolo, per i pubblici ministeri e non per gli avvocati e giornalisti dubbiosi. La politica sa fare anche il miracolo di far crescere un fiore nel deserto.

 Conte è così rimasto integro nell’immagine coltivata sotto le cinque stelle del migliore presidente del Consiglio che sia capitato all’Italia dopo Camillo Benso di Cavour in era monarchica e Alcide De Gasperi in era repubblicana, o a cavallo fra le due. Altro che Mario Draghi inopinatamente chiamato da Sergio Mattarella a prendere il posto dell’avvocato e professore. Non parliamo poi di Giorgia Meloni, che non sarà magari la fascistona immaginata da altri avversari con una esagerazione tale da favorirla, piuttosto che danneggiarla, ma non per questo potrebbe essere considerata, secondo Travaglio, all’altezza di Conte.

         Forza, quindi, caro il nostro D’Alema.  C’è speranza anche per lui, nonostante il processo con rito sommario che continua a fargli in prima pagina, fra gli altri, Il Giornale nella fase giustizialista in cui è entrato,  e dove non so francamente come possa trovarsi l’ora pur parzialmente editrice famiglia Berlusconi.  

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.polictmakermag.i

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