Un quasi giallo al Senato provocato dal gruppo forzista guidato da Licia Ronzulli

         Che al Senato, andando sotto in commissione Bilancio in una votazione chiusasi a parità di voti su alcuni emendamenti del relatore di maggioranza al decreto legge sul lavoro, il governo sia incorso in un “incidente”, come ha detto il nuovo capo di Forza Italia Antonio Tajani, quasi scusandosene per le assenze decisive dei suoi amici di partito, non c’è dubbio. Un incidente che, senza arrivare alla catastrofe denunciata dalla segretaria del Pd Schlein e dai grillini, è qualcosa in più, obiettivamente, dello “scivolone” su cui ha preferito titolare il Corriere della Sera, o dello “sbandamento” preferito da Repubblica. O degli “intoppi”, al plurale, o “pasticci”, sempre al plurale, indicati dal Giornale e dalla Verità includendo anche i pareri diversi emersi alla Camera fra il ministro leghista dell’Economia Giancarlo Giorgetti e la presidente del Consiglio Giorgia Meloni sulla ratifica del trattato che ha riformato il meccanismo europeo di sviluppo, o fondo salva-Stati. il famoso Mes.

         Su questa storia del Mes ha forse ragione Il Foglio a scherzarci sopra con una vignetta che attribuisce alla Meloni la proposta a Giorgetti di chiamarlo in un altro modo per renderle più facile, sul piano personale oltre che politico, una conversione al sì anche su questo problema, dopo altri ripensamenti avuti rispetto agli anni in cui lei e i suoi fratelli d’Italia erano all’opposizione.

         Ma torniamo all’incidente -ripeto- verificatosi in commissione al Senato, e peraltro rapidamente rimediato con un’altra votazione, per ammettere, rilevare, persino denunciare, come preferite, una curiosa coincidenza che ha tinto un po’ troppo di giallo la vicenda. E che la rende un pò più grave, o inquietante, della bocciatura rimediata qualche tempo fa dal governo nell’aula di Montecitorio, sempre per assenze nella maggioranza, addirittura sul documento di economia e finanza. Essa rovinò una festa politica che si stava rivelando una visita della Meloni a Londra con tanto di incontro e accordi bilaterali col primo ministro inglese.

         Questa volta le assenze in commissione sono state, come accennato, tutte di una sola parte: quella di Foza Italia. I cui senatori si sono attardati, secondo quanto ha comunicato e lamentato lo stesso presidente del Senato Ignazio La Russa, in una festicciola di compleanno. Si dà il caso, direi diabolico, che il gruppo forzista del Senato sia ancora presieduto da Licia Ronzulli, scampata negli ultimi mesi di vita di Silvio Berlusconi a rimaneggiamenti nel partito per rafforzare i rapporti con Meloni, che non l’aveva voluta ministra alla formazione del governo. La Ronzulli in dichiarazioni riprese dal Corriere della Sera ha diffidato dal ricamare “dietrologie” contro di lei, cioè su presunti dissensi da Tajani. Ma la politica, si sa, volente o nolente, è anche un processo continuo alle intenzioni, ogni volta che questo esercizio fa dannatamente comodo a qualcuno, all’interno anche di uno stesso schieramento o partito.

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La Repubblica giudiziaria costretta finalmente a vivere una giornata storta

         Vi chiedo un attimo di umana comprensione, per quanto immeritata, per la giornata o “l’Italia alla rovescia” che ha dovuto vivere Marco Travaglio, dal suo punto di vista naturalmente, in quel laboratorio fumettistico che è diventato Il Fatto Quotidiano tra fotomontaggi, vignette e “cattiverie” dichiaratamente offerte ai lettori in pima pagina.

         Nel giro di poche ore sono cadute come un’alluvione sul povero Travaglio la commemorazione –“l’autopompa funebre”, l’ha chiamata- dell’odiatissimo Silvio Berlusconi nell’aula del Senato, nel solitario e polemico dissenso delle 5 Stelle; la condanna, sia pure di primo grado, e quindi a innocenza costituzionalmente ancora presunta, del mitico magistrato in pensione Pier Camillo Davigo per divulgazione di segreto; l’assoluzione definitiva, dopo 7 anni e 4 processi, dell’ex sindaco di Lodi Simone Uggetti, da una “tenue” turbativa d’asta per la manutenzione di due piscine comunali. Che furono scambiate dai grillini per due fabbriche d’armi, a dir poco.

         A queste notizie giudiziarie di carattere interno vanno aggiunti, sempre per comprendere il forte stato di turbamento procurato al principe del giornalismo d’opposizione, il crollo a Bruxelles del dimissionario inquirente del Quatargate, una specie di Davigo o di Antonio Di Pietro d’esportazione, e l’abbraccio, a Parigi, di Emmanuel Macron e Giorgia Meloni, che nella logica grillina dovrebbero essere il diavolo e l’acqua santa.

         E’ mancata, a rovinare la giornata di Travaglio e di quanti si riconoscono nella sua mobilitazione quotidiana contro l’Italia della “illegalità”, la notizia delle scuse dell’associazione nazionale dei magistrati al ministro della Giustizia Carlo Nordio per avere criticato il suo primo “pacchetto” di riforma della Giustizia prima ancora di averne letto e soprattutto compreso i pur soli otto articoli di cui è composto. Se fosse arrivato anche questo colpo -scongiurato da un lungo editoriale del Corriere della Sera firmato da Giovanni Bianconi sul “piede sbagliato” col quale il pacchetto sarebbe partito- forse Travaglio non sarebbe fisicamente sopravvissuto all’alluvione. O sarebbe stato dato quanto meno per disperso.

         Ciò che è apparso nefasto al Fatto Quotidiano e ai suoi lettori indottrinati in una visione della politica e del Paese a dir poco disfattista, costituisce invece per altri di segno, cultura, animo, cervello e viscere opposte motivo di consolazione e di speranza che si apra finalmente per l’Italia un’altra pagina, e un’altra prospettiva. Non tutto ancora è fortunatamente perduto da noi e dintorni. Forse ce la potremo davvero fare ad uscire da quell’Italia alla rovescia, sì, in cui siamo entrati una trentina d’anni fa, quando la magistratura -ha sostanzialmente e finalmente riconosciuto di recente l’insospettabile Massimo D’Alema- volle ricavare una Repubblica giudiziaria da quella parlamentare nata con la Costituzione, in particolare “vigilando sull’etica pubblica e promuovendo il ricambio della classe dirigente”.

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Le fatue rappresentazioni guerresche di Elly Schlein alla direzione del Pd

         Incuriosito dalla rappresentazione quasi guerresca fatta un po’ da tutti i giornali di Elly Schlein alla direzione del Pd dopo la contestata partecipazione alla piazza grillina di sabato scorso a Roma -dalla segretaria che “dà battaglia” sul Corriere della Sera alla direttrice d’orchestra che su Repubblica chiede alla banda di “suonare lo stesso spartito”- mi sono dovuto fermare alle stesse prime pagine, senza avventurarmi più di tanto all’interno, per capire che lo spettacolo al Nazareno è stato tutt’altro.

         Roberto Gressi, per esempio, ha scritto sul Corriere che “la svolta radicale, seguita alle primarie, quando sembrava che bastasse buttare alle ortiche un partito ingessato e dominato dalle correnti per riconquistare un’Italia che non aspettavo altro, si è dimostrata un’illusione, almeno a guardare alle prime prove”. E ciò “anche perché -ha avvertito Gressi- non aiuta un linguaggio involuto, che si rivolge alle masse ma fatica a non apparire elitario”. Che è appunto il linguaggio della Schlen, per giunta vestita come si veste, come in certi laboratori di sartoria dove le masse non hanno il tempo, la voglia e soprattutto i soldi neppure per affacciarsi.

         Non meno severo o deluso è stato il direttore del Foglio, dove hanno voluto scommettere nelle ultime elezioni politiche sul Pd pur sicuramente perdente di Enrico Letta ed hanno poi coltivato per un po’ la speranza che la sorpresa della vittoria congressuale della Schlein potesse non rivelarsi così rovinosa. Ora Claudio Cerasa è costretto a scrivere in rosso, nel titolo, di “un vuoto chiamato Schlein”. E ad aggiungere, in nero: “Ambiguità. Confusione. Agenda da non senso. La relazione della leader Pd è un perfetto manifesto di impotenza politica e illumina una leadership che in attesa di avere un futuro sembra essere diventato il passato”. Siamo insomma allo “PsicoDramma” stampato dal Riformista come una nuova targa al Nazareno da un Matteo Renzi per niente sorpreso e ancor meno dispiaiciuto, fiducioso anzi di poter ricavare prima o dopo qualche serio utile elettorale dal combinato disposto della Schlein impegnata in una “estate militante”, come ha detto, e del “presidente Berlusconi”, come lui lo chiama ancora rispettosamente, morto e sepolto, anzi incenerito.

         Per non stare a ripetere gli argomenti espliciti e impliciti di Renzi, la cui sola evocazione serve abitualmente alla Schlein per darsi coraggio e proporsi come la vendicatrice del passaggio del toscano al Nazareno, mi permetterei di segnalare alla segretaria del Pd l’esortazione rivoltale da un gran signore della sinistra com’è stato sempre Gianni Cuperlo. Che, immaginandola da appassionato della montagna alla guida di una cordata, le ha ricordato il doveroso rifiuto di “pensare che quello dietro sia una zavorra inutile”. “Quelli dietro -ha detto Cuperlo- devono fidarsi”.  O. meglio, devono potersi fidare.

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Le operose ceneri di Berlusconi in aiuto del centrodestra, e in concorrenza con gli avversari

Trattenuto solo dalla paura della blasfemia, sarei tentato di scrivere che ormai dovrebbe essere chiaro anche a chi non crede all’aldilà che Silvio Berlusconi -per quanto morto e sepolto, anzi incenerito- continua a lavorare per la parte politica che fondò nel 1994: il centrodestra E non contro ma in paradossale concorrenza con gli avversari non fermatesi neppure dopo la sua morte per un momento di riflessione, e magari anche di autocritica, visto che hanno dovuto assistere da sconfitti all’esaurimento della sua avventura terrena.

         Alessandra Ghisleri, una sondaggista riuscitasi a guadagnare, dopo quelle dello stesso Berlusconi, anche la stima e la fiducia dei suoi nemici, ha scritto sulla Stampa dei 2,4 punti guadagnati da Forza Italia rispetto a 20 giorni fa e dei 3 rispetto ad una settimana fa.  Domenica e lunedì prossimo avremo il primo test elettorale post-berlusconiano nella regione molisana.

         L’aggravamento della crisi del partito fondato da Berlusconi, di cui si erano subito dichiarati convinti certi analisti, fra i quali il professore Giuliano Urbani, che a quella fondazione aveva partecipato, rimane per ora solo negli auspici o nelle previsioni di costoro. E non risultano neppure gli sbandamenti preannunciati e quant’altro del governo presieduto dalla leader della destra, Giorgia Meloni, peraltro propostasi orgogliosamente e immediatamente di continuare e completare l’opera di Berlusconi. Non a caso, anticipando i tempi programmati prima della morte dell’ex presidente del Consiglio, il governo ha approvato già all’indomani dei suoi funerali il primo pacchetto predisposto dal Guardasigilli Carlo Nordio per la riforma della giustizia.

Di fronte a questo pacchetto si è divisa non la maggioranza ma la forza politica, diciamo così, più corposa del variegato fronte delle opposizioni, cioè il Pd. La cui segretaria Elly Schlein, prima ancora di riparare alla partecipazione ai funerali di Stato di Berlusconi correndo da Giuseppe Conte e Beppe Grillo in piazza, ha detto no, per esempio, all’abolizione del reato di abuso d’ufficio condivisa invece, anzi reclamata da buona parte degli amministratori locali dello stesso Pd.

         Se ne vedranno delle belle -penso- nel percorso parlamentare del disegno di legge di Nordio anche per le altre sue parti -dalla limitata inappellabilità delle assoluzioni al meno facile ricorso alle manette preventive e alla divulgazione delle intercettazioni dei terzi nei processi- lungo il fronte delle opposizioni, da cui peraltro si è giù sfilato il cosiddetto terzo polo. Qualcuno sta facendo affidamento, politico e mediatico, su un presunto disagio della presidente del Consiglio rispetto a come il Guardasigilli ha deciso di gestire la partita, prendendo ci contropiede il sindacato contrario delle toghe sino a delegittimarlo col proposito di interloquire solo col Consiglio Superiore della Magistratura. Ma si sa come sono finite altre speranze coltivate in passato su contrasti, crepe e simili fra la premier e Nordio: nella confermata solidarietà della prima al secondo, con tanto anche di incontri a Palazzo Chigi e di attestati parlamentari.

 Non credo proprio che questa volta andrà diversamente, per quanto vorranno o potranno soffiare sul fuoco i soliti o altri sopraggiunti piromani, a volte persino professionisti della materia, alcuni provvisti di tute metaforiche con tutti i gradi guadagnatisi nelle loro passate carriere di magistrati o docenti di diritto. E per quanto si cercherà -temo anche questo- di coinvolgere o persino trascinare nei retroscena, e simili, persino il presidente della Repubblica, che pure ha appena rinnovato ai giovani magistrati i suoi appelli al severo e responsabile esercizio delle loro funzioni, presente un compiaciutissimo ministro della Giustizia. Intanto non il “solito” Sabino Cassese sbertucciato dai critici ma anche Giovanni Maria Flick ha concordato con Nordio. E sul piano politico persino Fausto Bertinotti parlandone al Foglio.

         Tutto finisce per avere il suo tempo: anche il manettismo, chiamiamolo così, cresciuto negli anni di “Mani pulite”, a lungo contrastato inutilmente da Berlusconi e poi addirittura rinvigorito dall’irruzione del movimento di Beppe Grillo nella politica e nel governo: un Grillo ora ridottosi a saltare come una specie di imbucato, a sorpresa, sul palco di turno, in piazza, per auspicare la formazione di “brigate” più o meno notturne o clandestine destinate non a contrastare quei “buffoni della Nato” attaccati da Moni Ovadia, ma semplicemente a rimettere a posto marciapiedi e altro delle città in cui vivono i residui militanti ed elettori pentastellati.  Sempre che questi brigatisti rossogialli riescano ad arrivare ai marciapiedi e altri obiettivi, specie nelle città precedentemente amministrate dai loro leader, superando e sopravvivendo alla monnezza presidiata da voraci cinghiali e uccellacci. Il passamontagna, anch’esso consigliato dal garante di Conte, potrebbe essere utile proprio a proteggersi dal lezzo. Buon lavoro, comunque, specie in un’estate augurabilmente calda e asciutta dopo una primavera così pazza e piovosa, anzi alluvionale.

Pubblicato sul Dubbio

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Allarme e sconcerto nel Pd per la fuga della Schlein nella piazza grillina

         La targa del Pd davanti alla sede del Nazareno, a Roma, è ancora al suo posto ma francamente non si sa più per quanto potrà rimanervi la segretaria Elly Schlein dopo lo sconcerto – “la tensione”, ha titolato il Corriere della Sera- provocato dalla solitaria decisione di correre da Giuseppe Conte per unirsi sabato alla manifestazione pentastellata contro il governo, debordata in un ritorno di Beppe Grillo a dir poco disastroso per lo stesso Conte. Che ha dovuto fingere di non avere sentito e capito le pesanti allusioni del garante alla sua difficoltà di comprendonio. “Mandategli pure le vostre proposte perché prima o poi le capirà”, ha gridato il comico mai a riposo alla folla che applaudiva i suoi richiami alla mobilitazione anche adesso che non c’è più, o magari proprio perché non c’è più quello che lui per tanto tempo si è divertito a dileggiare come “lo psiconano”, cioè Silvio Berlusconi.

         “Grillo è stato strumentalizzato”, ha cercato di difenderlo e di difendersi il presidente del movimento e per fortuna solo ex presidente del Consiglio. Strumentalizzato, naturalmente, anche per il sogno delle “brigate di cittadinanza” mobilitate immaginariamente di notte, con tanto di modello diffuso in rete, per sistemare marciapiedi, panchine e altro di dissestato nelle città italiane, comprese o a cominciare da quelle cui è capitato di essere amministrate dai grillini, come Roma. Di cui d’altronde Grillo ha sempre preferito ammirare soprattutto i ruderi promuovendo a propria residenza abituale, nelle incursioni capitoline, un costoso albergo che vi si affaccia.  

         Pur al netto dello sfortunato imprevisto del ritorno politico di Grillo, la decisione presa dalla segretaria del Pd di correre in piazza da Conte, di cui avrebbe voluto condividere qualche giorno prima l’assenza dai funerali di Stato di Berlusconi, si è rivelata rovinosa. Quello che sembrava scontato attorno alla Schlein, cioè la rassegnazione o, peggio ancora, il lucido disegno di lasciarla logorare da sola fino alle elezioni europee dell’anno prossimo, si va facendo sempre più incerto. Di fronte alla crescente aggressività oppositoria del movimento col quale la Schlein vorrebbe riprendere l’alleanza o collaborazione interrotta dal suo predecessore Enrico Letta aumentano le paure e gli abbandoni -ultimo quello del consigliere regionale del Lazio ed ex candidato alla presidenza Alessio D’Amato, dimessosi dall’Assemblea Nazionale – nell’area del partito che si autodefinisce riformista in politica interna e atlantista in politica estera. Di un atlantismo evidentemente incompatibile con la contestazione ora totale, e persino a parolacce, degli aiuti militari all’Ucraina aggredita da Putin: aiuti che pure erano cominciati con i grillini ancora nel governo di Mario Draghi. Da allora Putin non è certo diventato più disponibile a ridurre la carneficina quotidiana nel paese secondo lui “nazificato” da uno Zelensky sprovvedutamente scambiato evidentemente  da più di mezzo mondo per un  patriota.

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La trappola in cui si è infilata Elly Schlein correndo in piazza da Conte e Grillo

         Povera Elly Schlein, già a questo punto così critico della sua carriera di segretaria del Pd, pur cominciata meno di quattro mesi fa con l’elezione del 26 febbraio nelle primarie conclusive di un congresso durato non si sa più neppure quanto, tanta è stata la confusione nella quale fu promosso e condotto.

         Pentita di aver dovuto partecipare, per ragioni quanto meno di galateo politico impostele dai maggiorenti del partito, ai funerali di Stato di Silvio Berlusconi certificati dalla presenza per niente formale o controvoglia del presidente della Repubblica, la segretaria del Pd è tornata sulla decisione già annunciata, o comunque nota agli addetti ai lavori, di non partecipare alla cosiddetta “piazza d’opposizione” delle 5 Stelle. Opposizione al governo per i tagli al reddito di cittadinanza, le cosiddette precarietà e gli aiuti militari all’Ucraina aggredita da Putin. Elly vi è andata nella sua combinazione di colori abbracciando “Giuseppe”, cioè Conte, che l’aspettava per esserne stato informato durante la notte. Ma la scena le è stata rapidamente rubata da un esperto di teatro come Beppe Grillo, che da “garante” del movimento, che ne paga più o meno profumatamente la consulenza “comunicativa”, è saltato sul palco e ha imposto il suo “caos”, come ha efficacemente titolato La Stampa.  Egli ha, fra l’alro, incitato il pubblico a organizzarsi in “brigate” e a calarsi il passamontagna  per fare lavori notturni di manutenzione dei “marciapiedi” nelle città -si presume- dove questi, grazie a mancate amministrazioni grilline,  sono ancora accessibili o praticabili, non ostruiti da monnezza, cinghiali e contorni.

         Alcuni quotidiani di area di centrodestra sono stati meno ragionevoli o realisti della Stampa ed hanno preferito prendere sul serio il comico ormai in declino elettorale. Il Giornale ancora ma solo parzialmente della famiglia Berlusconi ha accusato “il cattivo maestro” di “scherzare col fuoco”, volente o nolente. Libero ha titolato sulle “brigate giallorosse” che “cercano il morto”. Esagerazioni, per fortuna. Propendo piuttosto per le “brigate comiche”, come le ha chiamate Il Tempo, dello stesso editore degli altri due quotidiani.

         Ma anche considerate allo stesso livello comico del suo promotore, colto dal vignettista Stefano Rolli sul Secolo XIX nella posa dell’attore che rivendica il suo primato sulla comparsa Giuseppe Conte travestito da presidente del Movimento, le “brigate” partorite dalla “piazza d’opposizione” esaltata dal Fatto Quotidiano stendono sulla presenza e partecipazione della segreteria del Pd un velo che è un po’ anche un veleno per i problemi che Elly Schlein ha al Nazareno. Dove ho l’impressione che crescano di numero e di irrequietezza quanti, già contrari all’origine o poi pentitisi di averla aiutata nella scalata al Pd, pensano che siano troppi e troppo pericolosi i 12 mesi che li separano dalle elezioni europee alle quali si sono condannati a farsi rappresentare da lei nell’immaginario collettivo, chiamiamolo così.  

Silvio Berlusconi è morto e sepolto ma comtinua a vivere nei nemici

         Avevo già scritto, modestamente, che i veri vedovi di Silvio Berlusconi si sarebbero rivelati i suoi avversari, più dei suoi familiari, a cominciare naturalmente dall’onorevole Marta Fascina, che il suo uomo chiamava moglie ostentando ultimamente anche una fede al dito. E che ha giustamente colpito e commosso milioni di persone che da casa l’hanno vista impietrita nel Duomo di Milano accanto alla bara, con gli occhi bagnati e fissi sul feretro.

         Avevo modestamente già scritto, ripeto, dei vedovi di Berlusconi da cercare fuori dalla sua famiglia e dalla cerchia più stretta degli amici, ma francamente non immaginavo che lo spettacolo, chiamiamolo così, si sviluppasse così rapidamente e clamorosamente.

         La demonizzazione di Berlusconi,  fra realtà e sarcasmo, si è subito trasferita sulla leader che ne ha coraggiosamente rivendicato l’eredità politica e promesso la continuità: la premier Gorgia Meloni. Che sul giornale orgogliosamente, quasi maniacalmente più antiberlusconiano sul mercato, naturalmente Il Fatto Quotidiano di Marco Travaglio, ieri si era già guadagnato il soprannome di “Melusconi”, come la buonanima di Giampaolo Pansa aveva trasformato Massimo D’Alema in “Dalemoni” quando si convinse, a torto o a ragione, che l’uno avesse deciso di governare praticamente per conto dell’altro dopo avere fatto fuori il primo Romano Prodi a Palazzo Chigi. Oggi, non bastandogli il “Melusconi” di ieri, Travaglio ha nominato e rappresentato la premier in carica “La Marchesa del Grillo”, mettendole in bocca le parole attribuite  in un film dall’indimenticabile Alberto Sordi: “Io so io e voi..”  non siete un cazzo, censurato in un sussulto di buona e ipocrita educazione.

         Non è che l’apparentemente austera Repubblica sia andata più leggera chiamando “legge salvacorrotti”, su tutta la sua prima pagina di oggi, quella appena proposta dal governo al Parlamento per abolire l’abuso d’ufficio, che produce da tempo più paralisi amministrative che condanne, pochissime. E cui la nova segretaria del Pd Elly Schlein ha subito dichiarato guerra per quanto informata che i sindaci del suo partito da tempo non aspettavano altro intervento per potere finalmente svolgere davvero il proprio mandato.

         La nuova legge è disinvoltamente “salvacorrotti” come era “spazzacorotti” quella varata nel 2019 dal primo governo di Giuseppe Conte e ancor prima quella della ministra della Giustizia Paola Severino, del governo di Mario Monti, usata anche per far decadere Berlusconi da senatore dopo la curiosa condanna per evasione fiscale del contribuente italiano che aveva pagato e pagava più tasse di tutti nel suo Paese.

         Ma oltre che “salvacorrotti”, la legge appena proposta dal governo si è guadagnata il soprannome di “bavaglio” per i problemi che pone a quelli che Mattia Fetri ha giustamente chiamato sulla Stampa non  giornalisti ma “copiatori”, lesti nel riprodurre carte, e simili, di sputtanamento del prossimo, neppure sotto processo, appena ricevute da fonti giudiziarie.

Sulla strada della riforma della Giustizia voluta da Silvio Berlusconi

         Niente da fare. Il povero Silvio Berlusconi si è fatto cremare come in una estrema, generosa pacificazione con gli avversari, pur avendo a suo tempo scherzato su quanto gli sarebbe potuta costare una tomba dove depositare il suo corpo per soli tre giorni, trascorsi i quali sarebbe risorto come Gesù, restituendo al Padre l’incubo di finire per diventargli il vice, e già i nemici sono tornati ad avvertirne la presenza. Una presenza naturalmente minacciosa come sempre, non inoffensiva secondo la rappresentazione dell’arcivescovo  di Milano.

         Berlusconi “è già risorto”, come ha immaginato e titolato il solito, ossessionato Fatto Quotidiano di Marco Travaglio,  per fare la festa questa volta non allo Stato, i cui funerali sarebbero coincisi mercoledì pomeriggio col suo, ma più in particolare all’odiata Giustizia, con la maiuscola. Una festa che non sarà breve perché il governo di Giorgia Meloni e il Guardasigilli Carlo Nordio, lasciati in eredità dal Cavaliere all’Italia, procederanno per tappe. Ieri ne hanno affrontato solo la prima col disegno di legge finalizzato all’abolizione dell’abuso di fiducia, ad una  limitata inappellaiblità delle assoluzioni e ad un uso, o abuso, meno facile del carcere preventivo e dello sputtamamento anche di persone estranee, o terze, ad un processo rivelandone intercettazioni privatissime e prive di ogni valore penale. “Giustizia è rifatta”, ha un po’ esagerato con soddisfazione Libero. “Segnali timidi ma importanti”, ha con più prudenza commentato l’avvocato Gian Domenico Caiazza sul Riformista.

         “La giustizia”, al minucolo, “di Silvio”, ha strillato Repubblica rincarando un po’ la dose col commento di Carlo Bonini titolato “una vendetta chiamata riforma”.

         Naturalmente la partenza è bastata e avanzata per provocare quella che il Corriere della Sera ha definito “alta tensione” fra Nordio e magistrati. Ai quali il ministro ha ricordato che il loro compito è di applicare le leggi approvate liberamente dal Parlamento, senza giudicarle e tanto meno interferire in vario modo per scriverle al suo posto, come è stato tanto a lungo permesso.

         Anche il Presidente della Repubblica, e del Consiglio Superiore della Magistratura, Sergio Mattarella, presente lo stesso Nordio, ha voluto cogliere l’occasione offertagli al Quirinale dall’incontro con le toghe di turno reduci dal tirocinio per esortarle, fra l’altro, alla “irreprensibilità e riservatezza dei comportanti individuali, così da evitare i rischi di apparire condizionalbili o di parte” e sottrarsi alla tentazione di “personalismi, arroccamenti su posizioni precostituite, e soprattutto di “pericolosa percezione di voi stessi quali autorità morali”.

         Sono per fortuna lontani i tempi  in cui dal Quirinale il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro correva alle assemblee sindacali delle toghe per assicurarle che mai e poi mai, per esempio, avrebbe firmato una legge per la separazione delle carriere fra pubblici ministeri e giudici,  di cui già allora si parlava.  

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La berretta cardinalizia che manca all’arcivescovo che ha saputo capire e raccontare Berlusconi

Al professore Giovanni Orsina è capitato di anticipare di alcune ore, e forse persino di ispirare, l’omelìa dell’arcivescovo metropolita Mario Enrico Delpini ai funerali di Stato di Silvio Berlusconi nel Duomo di Milano, alla presenza del Capo dello Stato. Intervistato dal Quotidiano Nazionale, che raggruppa Il Giorno di Milano, Il Resto del Carlino di Bologna e La Nazione di Firenze, il professore editorialista della Stampa aveva così risposto alla domanda su cosa fosse il berlusconismo: “E’ una grande celebrazione della vitalità italiana”.

         “Vivere. Vivere- ha scandito l’arcivescovo Delpini dopo il Vangelo- e amare la vita. Vivere e desiderare una vita piena. Vivere e desiderare che la vita sia buona, bella per sé e per le persone care. Vivere e intendere la vita come una occasione per mettere a frutto i talenti ricevuti. Vivere e accettare le sfide della vita. Vivere e attraversare i momenti difficili della vita. Vivere e resistere e non lasciarsi abbattere dalle sconfitte e credere che c’è sempre una speranza di vittoria, di riscatto, di vita. Vivere e desiderare una vita che non finisce e avere coraggio e avere fiducia e credere che ci sia sempre una via d’uscita anche dalla valle più oscura. Vivere e non sottrarsi alle sfide, ai contrasti, agli insulti, alle critiche, e continuare a sorridere, a sfidare, a contrastare, a ridere degli insulti. Vivere e sentire le forze esaurirsi, vivere e soffrire il declino e continuare a sorridere, a provare, a tentare una via per vivere ancora”.

         Impeccabile rappresentazione, direi, di Berlusconi e, appunto, del berlusconismo. Di Berlusconi e della sua lunga avventura di uomo, di imprenditore, di politico. “La lezione di Delpini alla piccineria del moralismo meschino”, ha felicemente titolato in rosso il suo commento Giuliano Ferrara sul Foglio, aggiungendo in nero: “Nella sua omelia un perfetto ritratto del Cav. Non resta che sorridere delle cattiverie senza grazia”. “Tutto è perdonato”, ha preferito invece commentare nel suo titolo di apertura Domani, il giornale di Carlo De Benedetti che sorprendendo -spero- il suo stesso editore, rapido in un necrologio di rispetto sul Corriere della Sera, non aveva ritenuto degna della sua prima pagina, martedì scorso, addirittura la notizia della morte di Berlusconi, quasi tradendo la rabbia di avere perduto un usuale e persino comodo obbiettivo polemico.

         Neppure Travaglio sul suo Fatto Quotidiano era arrivato a tanto. Né vi arriverà, visto l’impegno appena assunto con i suoi lettori di praticare un vigile e permanente “antberlusconismo”.  Che -ha spiegato- “non è un “male” da archiviare ma un altissimo valore etico-politico da mantenere ben saldo”, peraltro attribuito erroneamente alla sinistra perché essa “non è mai stata antiberlusconiana neppure per un giorno, anzi”. E giù di seguito un lungo elenco di piaceri, omissioni e altro che sarebbero state riservate dai vari D’Alema e Prodi prima che sulla scena politica irrompessero evidentemente Beppe Grillo e Giuseppe Conte, non a caso tenutisi entrambi ben lontani dai funerali di “beatificazione” civile e religiosa  di Berlusconi.  La nuova segretaria del Pd Elly Schlein vi è accorsa pure lei. Nulla di imprevisto e neppure più clamoroso, per carità. Ciascuno alla fine sceglie l’ossessione alla quale impiccarsi o ,più semplicemente, impiccare il suo umore.

         Si è detto e scritto che l’omelia dell’arcivescovo Delpini sia stata la vera sorpresa, di carattere persino “sacrale”, del funerale di Silvio Berlusconi. Che spero gli procuri quella berretta cardinalizia che ancora gli manca a circa sei anni dalla successione al cardinale Angelo Scola decisa da Papa Francesco alla guida della Diocesi più grande d’Europa, con le sue 1.107 parrocchie distribuite in 4.234 chilometri quadrati in cui sono comprese le province di Milano, Varese, Lecco, Monza Brianza, parte di Como e pezzi anche delle province di Bergamo e Pavia. Mario Enrico Delpini, di Gallarate, 72 anni da compiere il 29 luglio, sarebbe un cardinale coi fiocchi davvero, come tanti suoi illustri predecessori a Milano.

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.policymakermag.it e da http://www.startmag.it il 17 giugno

I vedovi di Silvio Berlusconi sono soprattutto i suoi avversari politici

A funerali di Stato -non dello Stato, secondo la formula denigratoria del Fatto Quotidiano di Marco Travaglio- conclusi come meglio non si poteva prevedere per il bagno di folla dell’estinto, si può dire con tutta tranquillità che i veri vedovi di Silvio Berlusconi, pur comprendendo e condividendo il dolore di familiari e amici, sono i suoi avversari. Ai quali è venuto a mancare il pretesto per sostituire i loro vuoti di idee e programmi col fango da rovesciare in quantità industriale contro l’ex presidente del Consiglio. Cui non è mai stato perdonato di avere sconfitto quella famosa e “giocosa macchina da guerra” allestita da Achille Occhetto nel 1994 per consegnare il Paese ad una sinistra che di comunista aveva perso solo il nome,non la nomenclatura e la militanza.

Fu una macchina portata in pista a meno di due anni dalle precedenti elezioni, del 5 e 6 aprile 1992, grazie alla disponibilità di un presidente del Consiglio -Carlo Azeglio Ciampi- dipendente dal presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro e dello stesso Scalfaro. Che negò clamorosamente udienza al capogruppo democristiano della Camera, il compianto Gerardo Bianco, che voleva solo dimostrargli, con i numeri ben scritti su un foglietto di carta, che il governo avrebbe potuto continuare a disporre di una maggioranza anche senza i comunisti, o ex o post. Che d’altronde se ne erano già andati dall’esecutivo Ciampi quasi nello stesso giorno del giuramento per la mancata concessione a scrutinio segreto, a Montecitorio,  di tutte le autorizzazioni chieste dalla magistratura per processare a tamburo battente Bettino Craxi: il capro espiatorio della diffusissima e notissima pratica del finanziamento irregolare -pardon, illegale- dei partiti e, più in generale, della politica.

         Massimo D’Alema ha ieri riconosciuto in una intervista al Corriere della Sera che in quegli anni “si era determinato nel nostro Paese”, e sviluppato in quelli successivi alla sorprendente vittoria di Berlusconi, “uno squilibrio nei rapporti tra poteri dello Stato, L’indebolimento del sistema dei partiti lasciò campo a una crescita del potere “politico” della magistratura, che si arrogò il compiuto di fare qualcosa di più che perseguire i reati, come per esempio vigilare sull’etica pubblica e promuovere il ricambio  della classe dirigente. Il tema era il riequilibrio”, impedito secondo D’Alema proprio dal sopraggiunto Berlusconi e dai suoi “scontri” con i giudici.         

Ora che Berlusconi non c’è più, come potranno i suoi avversari continuare ad usarlo contro il progetto di riforma della giustizia in senso garantista la cui prima parte predisposta dal Guardasigilli Carlo Nordio approda proprio oggi nel Consiglio dei Ministri? “Avanti, Nordio”, ha titolato Il Riformista di Matteo Renzi. Come contrastarlo?  Ecco una domanda che deve essersi posta la segretaria del Pd Elly Schlein partecipando, bontà sua, ai funerali di Berlusconi, e non disertandoli come Giuseppe Conte per meritarsi la stima di Marco Travaglio.

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