E’ davvero finita l’avventura irripetibile di Silvio Berlusconi

Alessandro Sallusti, il giornalista che in fondo gli è stato il più fedele fra quanti ne hanno accompagnato l’avventura politica, col fiuto del vecchio cronista e dell’amico sinceramente  allarmato si era lasciato scappare l’altro ieri su tutta la prima pagina di Libero un “cribbio” disperato apprendendo dell’improvviso, nuovo ricovero di Silvio Berlusconi in ospedale a Milano. Da dove era appena uscito dopo 45 giorni di ricovero in gran parte in terapia intensiva. “Ci risiamo”, aveva aggiunto il direttore del quotidiano peraltro sulla strada del ritorno alla guida del Giornale appena entrato nel portafogli della famiglia Angelucci.

         Proprio la cessione del Giornale fondato nel 1974 da Indro Montanelli è stata l’ultima e forse più dolorosa operazione dell’ormai compianto Cavaliere. Che aveva soccorso Montanelli come editore in un momento di grandissima difficoltà, quando il Giornale nato da una clamorosa scissione del Corriere della Sera rischiava di chiudere e Berlusconi si disse orgoglioso e onorato di dargli una mano. Gli scrisse anche una lettera -poi venuta fuori al momento della rottura, nel 1994- per assicurargli che il “padrone” del quotidiano sarebbe rimasto quello che lo aveva fondato. Lui, l’editore, avrebbe solo rimesso i soldi, e quanti. 

         A dividere la coppia fu la politica, Quella passionaccia dalla quale Berlusconi si sarebbe lasciato conquistare un po’ per interesse, volendo mettere le sue aziende al riparo dalle rappresaglie di chi le riteneva procurate al Cavaliere dal Caf inteso come acronimo di Craxi, Andreotti e Forlani, ma un po’ davvero per amore verso l’Italia. Che non fu solo una trovata propagandistica nel messaggio letto nella sua villa di Arcore davanti ad una telecamera che solo lui aveva potuto foderare di una calza per migliorarne il rendimento cromatico.

         La sua discesa in politica, a dire il vero, non fu tra le più lineari, circondato del resto da amici e familiari che gli sconsigliavano la politica conoscendone la imprevedibilità e spietatezza. All’inizio sembrò interessato più a favovire altri nell’azione di contrasto ai comunisti sopravvissuti alla caduta del muro di Berlino che ad esporsi in prima persona. Fu davvero a un passo dall’intesa con Mariotto Segni, che Umberto Bossi invece mandò a quel paese come un antesignano di Beppe Grillo ordinando a Bobo Maroni di togliersi dalla traiettoria della sua pur metaforica pistola. Fu proprio Bossi a convincere Berlusconi di candidarsi lui direttamente a Palazzo Chigi, salvo metterlo in croce in campagna elettorale e a rovesciarlo in pochi mesi, dopo averlo subito alla presidenza del Consiglio. Uno scenario, francamente, più da far west che da politica sofisticata. Eppure Berlusconi non si sarebbe lasciato vincere dallo sconforto. Ricominciò a tessere la tela strappata dal capo leghista, a ricostituire il centrodestra e a riportarlo al governo facendo letteralmente impazzire una sinistra che riteneva di avere preparato ben bene la conquista non del governo soltanto ma dello Stato dopo avere decapitato la cosiddetta e odiata prima Repubblica. Achille Occhetto, Massimo D’Alema e compagni non avevano previsto di dover fare i conti con lui, che un giorno sì e l’altro pure li faceva tremare col fantasma di Craxi, anche dopo la sua morte.

         Il centrodestra sottovalutato e deriso dagli avversari, con Berlusconi trascinato in tribunale addirittura per prostituzione minorile, da cui sarebbe stato assolto senza per questo chiudere i processi a grappolo partoriti dalla fertile immaginazione delle Procure, si è sviluppato, ha avuto una sua evoluzione radicale su cui prima o dopo professori e simili dovranno pure riflettere. Berlusconi ha perduto progressivamente centralità, pur sbandierata in pubblico a dispetto di risultati elettorali sempre più modesti, ma è riuscito a lasciare al Paese una destra di cui la sinistra non riuscirà facilmente a liberarsi. Una destra che forse riuscirà a cambiare l’anno prossimo gli abituali equilibri politici anche dell’Unione Europea.  

         Ora si aprirà davvero il problema della successione a Berlusconi, non credo proprio destinata a seguire criteri familistici perché senza di lui tutto è destinato a cambiare da quelle parti. La sua è stata davvero un’avventura personale, personalissima, direi inimitabile.

La guerra punica di Giorgia Meloni che non riuscì neppure ad Andreotti

         Con quella “Scipiona l’africana sparata su tutta la prima pagina di Libero riferendo del “patto di Cartagine” che Giorgia Meloni è andata a stringere col presidente tunisino Kais Saied, portandosi appresso la presidente tedesca della Commissione europea di Bruxelles e l’olandese Mark Ruttle , il buon Alessandro Sallusti è riuscito dove neppure a Giulio Andreotti fu possibile. Farsi coinvolgere -disse una volta l’allora presidente del Consiglio a Indro Montanelli che avevo accompagnato da lui per una visita di cortesia nei primi anni del Giornale- “anche in qualcuna delle guerre puniche”. Montanelli che già aveva per conto suo un debole per Andreotti, ammirandone l’arguzia e la conoscenza come nessun’altro della macchina dello Stato, uscì dall’incontro dicendomi che contro quel “mostro” non c’era partita per nessuno. E rise di cuore quando gli inquirenti di Palermo lo immaginarono baciato da Totò Riina.

         La Meloni è andata a Tunisi per due volte in pochi giorni piena di soldi e di buone intenzioni per evitare che dalle coste di quel Paese l’Italia finisca travolta da un’ondata di immigrazione per il fallimento di uno Stato che molti negli anni scorsi si erano abituati a considerare solo un conveniente luogo di vacanza, il rifugio di Bettino Craxi. Pare che la premier italiana non si capaciti dei dubbi nutriti contro Kais Saied dal presidente americano Joe Biden, di cui pure la prima donna a Palazzo Chigi è riuscita a conquistarsi la fiducia e la simpatia sul fronte  non certamente secondario della guerra di Putin all’Ucraina.  

         I gufi in Italia stanno già scommettendo sulla guerra punica che la Meloni potrebbe perdere in Italia. Dove il più interessato ad un suo fiasco , pur non immaginando di potervi costruire sopra chissà che cosa, è Giuseppe Conte ringalluzzito come un pavone per essere stato l’unico oppositore ammesso da Bruno Vespa nella masseria pugliese che sostituisce d’estate la sua terza Camera, come Andreotti -sempre lui – definì la trasmissione Porta a Porta.

         Con gli immigrati Conte ha già pasticciato abbastanza nei due passaggi a Palazzo Chigi, prima assecondando e poi sgambettando il suo ministro dell’Interno Matteo Salvini, ancora alle prese con un processo per sequestro di persone e altre nefandezze risparmiategli quando i due andavano d’accordo e poi rifilatogli a rapporti interrotti. Ma è assai improbabile, per quanto astuto cerchi di mostrarsi, che l’ex presidente del Consiglio possa tornare a Palazzo Chigi portato dagli inmigrati della Tunisia e degli altri paesi interni dell’Africa .

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