La terza carica dello Stato sostituisce la seconda nel rapporto di condivisione con Mattarella

In questi giorni di vigilia della festa di Liberazione del 25 aprile intossicati anche da una certa satira che reclama, come fa oggi Il Fatto Quotidiano, il dovere e il diritto di prendere per “il culo”, letterale, una destra non sufficientemente o per niente antifascista, ritenendosi autorizzato alla parolaccia dall’uso fattone a suo tempo del vecchio Cuore di sinistra, complimenti a Stefano Rolli. Che sulla prima pagina della Stampa ha voluto e saputo rappresentare nella sua vignetta la protesta della premier Giorgia Meloni, di fronte ad un calendario, per questa “maledetta primavera”. Maledetta per le polemiche alle quali non hanno saputo sottrarsi anche amici di partito al vertice delle istituzioni come il presidente del Senato Ignazio La Russa. Che ha addirittura attribuito alla Costituzione della Repubblica il merito, diciamo così, di non contenere l’antifascismo esplicitamente in alcun passaggio, confinando nelle disposizioni “transitorie” – ma anche “finali, gli ha fatto notare il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky- il  divieto di ricostituire “sotto qualsiasi forma il disciolto partito fascista”.  

Peccato che il direttore dello storico giornale torinese, Massimo Giannini, non abbia voluto tenere conto della vignetta di Rolli sfidando praticamente la Meloni, nel suo editoriale, a dire una buona volta che cosa pensi del fascismo e dell’antifascismo. “Giorgia Meloni -ha scritto il direttorenon parla del giorno della Liberazione dal fascismo. Non ne ha mai parlato fino ad oggi, da presidente del Consiglio. Dopodomani sarà all’Altare della Patria con Sergio Mattarella. Aspettiamo il suo comunicato ufficiale”. Al quale, in verità, non l’obbliga nessuno potendo bastare e avanzare la sua presenza, appunto, accanto a Mattarella.

Eppure, prima ancora di vedere e riflettere sulla vignetta di Rolli, il severo e sospettoso Giannini avrebbe potuto rileggersi la prima pagina di ieri del suo stesso giornale. Dove Flavia Perina, già direttrice del Secolo d’Italia, organo ufficiale prima del Movimento Sociale e poi di Alleanza Nazionale, ha riprodotto un passaggio di certo non secondario del documento di svolta della destra italiana approvato a Fiuggi tanti anni fa e che la Meloni non ha mai rinnegato. “E’ giusto chiedere alla destra italiana -diceva e dice quel passaggio- di affermare senza reticenza che l’antifascismo fu un momento storicamente essenziale per il ritorno dei valori democratici che il fascismo aveva conculcato”. 

Credo che non fosse mancato in quella occasione neppure il voto di Ignazio La Russa, che ora invece a Palazzo Madama sembra averlo dimenticato con le sue sortite culturalmente ma anche politicamente provocatorie. Egli si è appena fatto scavalcare, nel corretto percorso istituzionale col presidente della Repubblica, dalla terza carica dello Stato: il presidente leghista della Camera Lorenzo Fontana, corso ai ripari con una intervista al Corriere della Sera orgogliosamente antifascista. 

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La sconfitta, una volta tanto, dei somari della Costituzione repubblicana

I fatti per fortuna, almeno stavolta, contano più delle parole. Di cui in questi giorni, anche in vista della festa di Liberazione del 25 aprile, si è fatto un certo abuso intossicando i rapporti persino istituzionali. E abbassando ulteriormente il livello culturale della politica, potrebbe dire il Capo dello Stato Sergio Mattarella dopo l’intervista di ieri al Corriere della Sera. Penso, per esempio, alle parole sfuggite al presidente del Senato Ignazio La Russa con quella sortita “cieca”, come l’ha definita  il manifesto, sulla Costituzione priva del termine “antifascista”. La Repubblica, che aveva maggiormente enfatizzato una chiacchierata di La Russa, gli ha generosamente fornito un salvagente, per quanto satirico, con la vignetta di Altan che gli fa dire: “Non si può dire una cazzata, che subito la strumentalizzano!”. 

Tra i fatti, ripeto, per fortuna prevalenti almeno stavolta sulle parole metterei tuttavia al primo posto il silenzio improvvisamente caduto oggi in quasi tutte le prime pagine dei giornali sul ministro della Giustizia crocifisso per più giorni a destra e a manca, da toghe ed avvocati insieme, per  i rilievi ai giudici della Corte d’Appello di Milano che, accordando gli arresti domiciliari, hanno di fatto consentito la fuga d’un faccendiere russo amico di Putin. A carico del quale pendeva un procedimento di estradizione negli Stati Uniti. 

Dell’azione disciplinare promossa dal Guardasigilli verso quei giudici si è detto e scritto che avrebbe violato le sacrali autonomia e indipendenza della magistratura, le cui decisioni potrebbero essere contestate solo ricorrendo al superiore grado di giudizio. Incultura anche questa, da bocciatura in un serio esame universitario, perché ignora l’articolo 107 della Costituzione, che conferisce appunto al ministro della Giustizia -l’unico peraltro ad essere menzionato nella stessa Costituzione fra tutti i colleghi di governo- la promozione dell’azione disciplinare, senza alcuna condizione. in modo secco, assoluto. “Il ministro della Giustizia -dice il secondo comma di quell’articolo- ha facoltà di promuovere l’azione disciplinare”, appunto. 

Le sacrali- ripeto- autonomia e indipendenza della magistratura restano tutelate dalla sede in cui si svolge l’azione promossa dal Guardasigilli: il Consiglio Superiore, dove non a caso le assoluzioni sommergono le condanne. Di che cosa dunque hanno paura questi somari che, ripeto, non meriterebbero di superare un esame universitario se vi si lasciassero sottoporre di nuovo? 

Ha certamente contribuito a blindare il Guardasigilli, anche sulla strada della riforma della Giustizia contemplata dal programma di governo, quel “Nordio uomo giusto al posto giusto” appena confermato dalla premier Giorgia Meloni in una lunga intervista al Foglio. Ma anche quella “ragione” datagli dal presidente emerito della Corte Costituzionale Giuliano Amato, guarda caso, da New York: cioè dagli Stati Uniti sorpresi e danneggiati dai giudici della Corte milanese d’Appello. 

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L’infelice incultura della politica sferzata dal presidente della Repubblica

Riprendo da una lunga, straordinariamente colta intervista appena rilasciata al quirinalista del Corriere della Sera Marzio Breda dal Presidente della Repubblica  Sergio Mattarella in occasione del festival del libro a Parigi, di cui l’Italia è ospite d’onore: “Il sapere si è affermato come un valore democratico, anzi come condizione della stessa vita democratica. Non a caso l’accesso all’istruzione è divenuto uno dei diritti contemporanei. Un bagaglio di studi limitato è una barriera che, oltre a creare divari, genera incomprensioni e, dunque, conflittualità e, soprattutto, ci impedisce di progettare il futuro con chiavi interpretative adeguate a comprendere la complessità del nostro vivere contemporaneo”. 

Immagino il ministro Francesco Lollobrigida a leggere queste parole e mi viene non so se più da ridere o da impallidire dopo la sua confessione di avere parlato di “sostituzione etnica” senza sapere di essere stato preceduto tanto tempo fa su questa strada dal filosofo austriaco Richard Nicolaus Kalergi. Del cui piano cospirativo si sono alimentate le culture, chiamiamole, così nazista e fascista. Uno, peraltro ministro, che si occupa o si mette a parlare di immigrazione e non conosce un simile precedente dovrebbe sentire quanto meno il dovere di scusarsi: cosa che l’interessato non ha voluto fare davanti a un microfono e una telecamera mentre gli veniva richiesto. 

Non so neppure questa volta se ridere o impallidire di più pensando al soccorso prestato al ministro Lollobrigda dal Fatto Quotidiano con quella vignetta sulla moglie, sorella della premier Giorgia Meloni, a letto con un africano da lei incoraggiato al sesso dall’assenza del marito troppo impegnato a contrastare la sostituzione etnica, appunto. Una vignetta che per la sua evidente volgarità, a dispetto della impunità reclamata dalla satira, ha naturalmente procurato alla famiglia Meloni-Lollobrigida solidarietà bipartisan, lasciando praticamente al ministro una via di fuga.

Mentre la cronaca politica veniva invasa dalle reazioni alla vignetta del Fatto, il presidente leghista della Camera Lorenzo Fontana davanti alla scolaresca di un istituto intestato al povero  Vittorio Bachelet, ucciso nel 1980 dai terroristi rossi nella doppia veste di professore e di vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, chiamava l’interessato Bakelet. E si  è meritato stamane sul Corriere questo epilogo del quotidiano appuntamento di Massimo Gramellini con i lettori: “Pazienza per Fontana, lui ormai i suoi studi li ha fatti (o non li ha fatti). Ma gli studenti del Bachelet, reduci dalla lezioncina di Montecitorio, si staranno domandando: se uno diventa presidente della Camera senza conoscere la storia d’Italia, perché mai dovremmo studiarla noi?”.

Lo stesso discorso merita il presidente del Senato Ignazio La Russa, che in un “colloquio” con Repubblica, derogando alla promessa del silenzio  dopo un’altra uscita infelice, ha detto che “nella Costituzione non c’è l’antifascismo”. 

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Armaroli fa le pulci a 15 senatori a vita nominati per la politica, non per altri meriti

Non lasciatevi scoraggiare, per favore, dalle 450 pagine dell’ultimo libro di  Paolo Armaroli -anzi penultimo, perché probabilmente l’autore ne starà già scrivendo un altro- pubblicato da La Vela e titolato andreottianamente “I senatori a vita visti da vicino”. Lo si legge se non tutto di un fiato, quasi, vista l’oggettiva abbondanza di carta.

Pur legati -lo confesso- da una ormai vecchia amicizia personale e colleganza d’arte, volendo nobilitare immeritatamente il giornalismo, professionale e non, ho preso subito di mira con spirito competitivo la parte del quarto capitolo del libro sui senatori a vita da lui definiti “abusivi”. E ciò perché nominati dai presidenti della Repubblica più per valutazioni politiche che per gli “altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario” prescritti dall’articolo 59 della Costituzione. 

Poiché si tratta di 15 dei complessivi 38 senatori nominati a questo titolo da quasi tutti i presidenti succedutisi al Quirinale, più o meno conosciuti o seguiti anche da me in una lunga attività fra giornali e televisioni, ho voluto verificare quanto di più Paolo abbia saputo vedere e trovare sul loro conto tra consultazioni di atti e confidenze raccolte come professore universitario e poi anche per un pò come parlamentare. Ahimè, tantissimo, a cominciare dal primo della lista stesa in ordine alfabetico, 

Di Giulio Andreotti, per esempio, non sapevo l’autenticità solo presunta di famose battute attribuitegli accreditandolo come il più brillante dei politici. Non sarebbe sua, per esempio, ma di Talleyrand la paternità del potere che “logora chi non ce l’ha”. Non sua, ma neppure di Sant’Agostino richiamato da altri, ma del cardinale Francesco Selvaggini Marchetti, morto nel 1951, è invece il riconoscimento che “a pensar male si fa peccato ma spesso s’indovina”. Sicuramente suo, invece, sarebbe il “meglio tirare a campare che tirare le cuoia” opposto a Ciriaco De Mita che si era lamentato del modo di guidare almeno uno dei suoi sette governi. Abusivo, ma comunque “di lusso” il suo laticlavio, secondo Armaroli.  

Di Emilio Colombo è sottolineato nel libro più che il contributo dato in un decennio ai lavori del Senato con discorsi e altro, l’imbarazzo procurato a Carlo Azeglio Ciampi, che l’aveva appena nominato, per una penosa vicenda di droga che coinvolse la scorta e che spiegò ai magistrati raccontando di farne uso da un anno e mezzo “a fini terapeutici”. “Una pezza che a mala pena copre il buco”, scrive Armaroli. 

Di Francesco De Martino, già segretario del Psi, prima di Bettino Craxi, e vice presidente del Consiglio col democristiano Mariano Rumor a Palazzo Chigi, Armaroli scrive come di “un fantasma” passato “letteralmente inosservato” a Palazzo Madama. Dove tuttavia ebbe la ventura di presiedere per ragioni anagrafiche all’inizio della legislatura uscita delle urne del 1994 le prime due sedute che portarono sull’orlo dell’infarto il già fisicamente provato Giovanni Spadolini: pure lui senatore a vita ma soprattutto presidente uscente dell’assemblea e candidato dall’opposizione alla conferma. Al terzo scrutinio, in concorrenza col berlusconiano Carlo Scognamiglio, egli fu applaudito in aula come eletto ma per sbaglio. In realtà, rifatti i conti, la vittoria fu assegnata all’altro per un voto di scarto. Neppure quella volta De Martino si scompose nella sua figura sfinge.

Con Spadolini, nella parte dedicata al suo laticlavio, Armaroli è giustamente generoso sul piano culturale e umano riconoscendogli di avere meritato anche come senatore a vita quella sola, semplice e al tempo stesso austera qualifica da lui stesso voluta sulla sua tomba a Firenze: “un italiano”. 

Di Amintore Fanfani, tornando all’ordine alfabetico dell’elenco degli “abusivi”, solo Armaroli poteva fare concorrenza al famoso “Rieccolo” datogli da Montanelli, per la capacità di rialzarsi dopo ogni caduta, facendogli cambiare sesso e paragonandolo alla “Elena del Faust di Goethe  molto lodato e molto vituperato”. Pur provvisto di “un brutto carattere”, come chiunque ne abbia uno davvero, Paolo riconosce che “questo mezzo toscano aveva addolcito il suo” con gli anni diventando “disponibile al dialogo più di quanto lo fosse stato in passato”. Non a caso -mi permetto di ricordare- dopo il sequestro di Aldo Moro, di cui era stato l’antagonista come leader della Dc, Fanfani fu tra i pochi, comunque il più espostosi nel tentativo di salvargli la vita superando la immobilistica e mortale “linea della fermezza” opposta alle brigate rosse. Con le quali poco dopo la Dc avrebbe trattato per liberare l’assessore regionale campano Ciro Cirillo finito nelle loro mani insanguinate.

Di Giovanni Leone, “il tappabuchi balneare”, Armaroli ricorda, anche come capo dello Stato ingiustamente detronizzato “per un inesistente suo coinvolgimento nello scandalo Loockeed”, e pur in certi aspetti “un pò pittoreschi”, la figura di “un galantuomo cresciuto alla severa scuola di De Nicola”.

Cesare Merzagora passa indenne l’esame. Non così Mario Monti, nominato senatore a vita in funzione della quasi contemporanea destinazione a Palazzo Chigi come presidente del Consiglio, pur essendo stato preceduto alla guida di un governo dall’allora governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, senza che questi ottenesse prima lo scudo o il premio del laticlavio. Di Giorgio Napolitano si ricorda il troppo poco tempo vissuto come senatore a vita, dal settembre 2005 al maggio successivo, quando fu eletto presidente della Repubblica. 

APietro Nenni viene perdonato il “neutrale mai e poi mai” e assegnata la qualifica di “abusivo di classe”. Come di Giuseppe Paratore si ricorda la lodevole lettera  scritta prima di morire per chiedere con discrezione di non essere commemorato.

Dovrei continuare per arrivare alla lettera V con Leo Valiani preceduto da Ferruccio Parri, Camilla Ravera, Meuccio Ruini e Luigi Sturzo, ma ho esaurito lo spazio a disposizione. Il resto, se volete, potrete leggerlo direttamente godendovi anche voi il libro di Armaroli. 

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it il 23 aprile

Un Mattarella a sorpresa dalla Polonia mette a rischio una guida italiana della Nato

Potrebbe compromettere, suo malgrado, l’arrivo di un italiano al vertice della Nato il Mattarella a sorpresa giunto dalla Polonia, per quanto sfuggito ai radar dei giornaloni italiani, intercettato solo dalla Verità di Maurizio Belpietro e dal Dubbio di Davide Varì. Che hanno titolato su una sua sortita alla Macron, contrario ad un’agenda europea “dettata da altri”, cioè dagli americani -si potrebbe presumere- di fronte alla guerra in Ucraina scatenata e condotta con ferocia crescente dalla Russia. Del discorso del presidente della Repubblica in territorio polacco, in una visita pur di sostegno dichiarato alla resistenza ad oltranza degli ucraini con l’aiuto degli occidentali, i giornaloni -ripeto- hanno preferito valorizzare di più, o soltanto, il monito a non considerare l’Unione Europea una semplice “somma di interessi nazionali mutevoli”. Come sono quelli, per esempio, sul fronte sempre più caldo dell’immigrazione clandestina, affidata a regole giustamente definite “preistoriche” dal capo dello Stato. 

Come è già accaduto per le parole di Macron, dopo una sua visita in Cina, contro un presunto “vassallaggio” americano dell’Europa, oltre Oceano potrebbero non gradire neppure quelle pur non così amplificate di Mattarella in Polonia. E ciò mentre- stando ai retroscena e quant’altro di Repubblica, come grida un titolo in prima pagina sulla Nato- un presunto “ no di Draghi apre la strada alla guida militare di Cavo Dragone”. E’ l’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, in particolare, 66 anni compiuti a febbraio, capo di Stato Maggiore della Difesa italiana dal 2021.

Quel Mattarella un pò macronizzato – fra i due presidenti, del resto, i rapporti sono notoriamente eccellenti, serviti più volte a comporre conflitti o superare equivoci fra i governi di Roma e Parigi- ha finito per trovarsi, con quell’agenda europea dettata da altri, come la nuova segretaria del Pd Elly Schlein nella sua prima conferenza stampa commentata sul Corriere della Sera, servendo il caffè quotidiano, da Massimo Gramellini sotto il titolo: “Elly parallele”. Che su Domani, il giornale della “radicalità” indossata da qualche tempo dall’editore Carlo De Benedetti, è diventato “Schlein, radicale ma prudente”.

Tanto prudente, la segretaria del Pd, sui temi -per esempio- della guerra in Ucraina e della monnezza a Roma, dove il sindaco è deciso a mandarla in un termovalorizzatore osteggiatissimo dai grillini, che Il Fatto Quotidiano le ha dedicato questo titolo di apertura in prima pagina: “Schlein, zero svolte. Conte per conto suo”. E ciò alla faccia della vittoria appena cantata dai due nelle elezioni comunali di Udine. 

“La verità è -ha notato Gramellini- che la politica non è mestiere per opinionisti ma per mediatori, perché il suo compito consiste nel decidere senza sfasciare…..Il colore della politica è il grigio, perciò non ci emoziona…Ogni nuovo leader ci illude e poi sempre ci delude”. 

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La rondine di Udine nella strana primavera fredda della sinistra italiana

Prima di partecipare anche lui alla campagna fresca di stampa contro il governo all’insegna del razzismo per il piano avvertito dal ministro Francesco Lollobrigida di una “sostituzione etnica” dietro l’aumento esponenziale dell’immigrazione dall’Africa, l’amico Piero Sansonetti ha voluto ieri cantare dalla direzione del suo Riformista, che sta per passare sotto quella di  Matteo Renzi e Andrea Ruggieri, il sollievo della sinistra, rigorosamente in rosso, per l’arrivo della rondine, in una primavera pur fredda, a Udine. Dove il centrodestra ha perso con uno scarto del 5 per cento le elezioni comunali 15 giorni dopo avere stravinto  quelle regionali. 

In questo risultato Piero ha trovato la conferma di una cosa per lui “già chiara ma ora cristallina”. “Il centrosinistra -ha scritto-  dispone della maggioranza degli elettori… Il problema è che non sa fare coalizione e quindi, con l’attuale legge elettorale, vince la destra. Che pure è minoranza. A Udine, per la prima volta, è riuscito a fare un’alleanza larga, dal Terzo polo al Pd, ai radicali, alla sinistra, ai 5 stelle. E’ un dato politico indiscusso e sul quale sarà bene riflettere”.

Questo ragionamento ha due inconvenienti. Il primo è di cronaca, o statistico. Esso ignora che fra il primo e il secondo turno delle elezioni comunali a Udine l’affluenza alle urne è scesa di ben dieci punti: dal 54 per cento, che già non era un granché, al 44. Ciò basterebbe e avanzerebbe a spiegare perché il candidato del centrodestra, il leghista Pietro Fontanini, prevalso di 7 punti nel primo turno sul concorrente candidato dal Pd, Alberto De Toni, ha potuto essere raggiunto e superato. E’ presumibile che fra gli infreddoliti elettori di centrodestra molti abbiano evitato di tornare alle urne dando per scontato il successo del sindaco uscente, e uscito.

L’altro inconveniente, almeno ai fini della soddisfazione espressa da Sansonetti e della “riflessione” proposta ai suoi lettori, che fra qualche giorno continueranno a seguirlo sull’ Unità risorta grazie allo stesso editore del Riformista, è tutto politico. Esso sta nella natura un pò troppo  carnevalesca -e fuori stagione– della coalizione improvvisata dal Pd fra il primo e il secondo turno delle elezioni udinesi. E’ una natura rispetto alla quale la coalizione di centrodestra, pur con tutti i suoi problemi interni di convivenza e concorrenza fra leghisti di varia tendenza, destra meloniana e berlusconiani, sembra un cristallo. Sansonetti plaude, fra gli altri, ai grillini dei quali ha scritto e detto per anni come dei marziani, a dir poco, anche o ancor più sotto la guida di Giuseppe Conte.

Un’ultima, per quanto velenosetta riflessione, per rimanere al linguaggio di Piero. Dubito che Il Riformista sarebbe uscito sulla rondine di Udine con lo stesso titolo di ieri sotto la direzione imminente della coppia Renzi-Ruggieri. Che si riconoscerebbe forse nel più prudente monito del manifesto: “Un errore illudersi”, anche se “è un segnale di vita”.

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Quel sogno craxiano della pacificazione nazionale dopo la lunga stagione dell’odio

Dell’intervista di Stefania Craxi pubblicata domenica, da me trattata in altra sede -sul Dubbio- per la parte riguardante la diaspora socialista, mi ha colpito che la titolazione del Corriere della Sera, in prima pagina e dentro, sia stata dedicata ai fiori che un giorno il leader del Psi volle porre sul posto in cui furono uccisi Benito Mussolini e l’incolpevole amante Claretta Petacci dai partigiani che con intendevano consegnare il  nemico agli americani. E mi sono chiesto con la solita malizia del giornalista- a costo di meritarmi anch’io  il durissimo attacco di Luca Ricolfi, in una bella intervista a Libero, contro il contributo dato quotidianamente dai giornali all’intossicazione del clima politico- se intervistatore e titolista avessero voluto solo attenersi all’ordine cronologico dei ricordi di Stefania o non appannare l’antifascismo  della buonanima di Bettino alla vigilia della festa del 25 aprile. Che anche quest’anno potrebbe replicare la vecchia gara a chi parla peggio degli eredi, presunti o reali, di quella destra.   “Per il 25 aprile -ha detto non a caso, e giustamente, Ricolfi nella già ricordata intervista- temo più gli antifascisti estremi”.

Curiosamente l’intervistatore di Stefania ha fatto seguire al racconto dei fiori sul posto dell’esecuzione di Mussolini questa osservazione sul padre: “Con Almirante aveva un buon rapporto”. Come se anche quei fiori appartenessero alla storia di quei rapporti col leader missino spintisi nel 1985 ad un incontro ufficiale, sia pure non menzionato, che Craxi, presidente del Consiglio, volle per verificare la disponibilità della destra a sostenere la candidatura dell’allora vice presidente democristiano del Consiglio Arnaldo Forlani  al Quirinale. Dove finì per andare invece Francesco Cossiga all’insegna del famoso “patto costituzionale” di conio demitiano. 

Stefania Craxi, che dal padre ha preso evidentemente anche la prontezza dei riflessi, non è caduta nella trappola parlando di quell’incontro. Che a suo tempo procurò al leader socialista l’accusa di volere isolare i comunisti, contrari a Forlani, mettendoli in minoranza con i voti “fascisti” garantiti dall’ex capo d gabinetto di non ricordo più quale ministro della Repubblica Sociale di Salò. Stefania ha semplicemente risposto e raccontato “il sogno” del padre “che un fascista e un socialista andassero insieme a Piazzale Loreto, dove si era consumata quella che riteneva un’infame barbarie”, con i cadaveri del Duce e della Petacci appesi con atri ai ganci di un distributore di benzina, “e rendessero omaggio sia alla memoria di Mussolini, sia a quella dei partigiani socialisti che lì erano stati fucilati”. E poi vendicati con quell’osceno spettacolo fatto cessare da Sandro Pertini con un ordine secco. 

L’antifascismo non impediva insomma a Craxi, come invece impedisce ancora a tanti  gestori titolati della festa del 25 aprile, di volere far seguire finalmente la stagione della pacificazione nazionale a quella dell’odio.

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Gli effetti della diaspora socialista sulla geografia politica dell’Italia

La diaspora socialista, rovinosamente politica per una sinistra che finge di non rendersene conto e non mostra alcuna voglia di superarla, e drammaticamente familiare, avendo investito gli stessi figli di Bettino Craxi, l’ultimo leader avuto dal socialismo italiano, è riemersa con una reazione stizzita del mo carissimo amico Bobo ad una intervista della sorella Stefania al Corriere della Sera. In cui la presidente della Commissione Esteri del Senato, da sempre eletta al Parlamento nelle liste della berlusconiana Forza Italia, ha detto che “sono tutti di destra” quei “ragazzi” che “ogni tanto” le scrivono “sono craxiano”. 

“Chi votava Psi vota centrodestra”, ha continuato Stefania che, avendo parlato in tutta l’intervista del padre chiamandolo non papà ma Craxi, ha spiegato all’intervistare curioso di saperne la ragione: “Per mantenere un distacco emotivo. E perché non voglio fare l’orfana. Ce ne sono un pò troppi in Italia. E di solito abbracciano quelli che gli hanno ammazzato il padre”. Un padre, nel suo caso, “disconosciuto dalla sinistra cui apparteneva”, ha ricordato e al tempo stesso denunciato la figlia non a torto. 

L’unico a sinistra, fra i dirigenti meritevoli di questo nome, a difendere Craxi dalla dannazione della memoria inflittagli da quelle parti fu nel 2010, nel decennale della sua morte ad Hammamet, l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano con una nobilissima e circostanziata lettera alla vedova. Alla quale riconobbe, lamentandolo, il trattamento di severità “senza pari” ricevuto dal marito per il fenomeno pur generalizzato del finanziamento illegale della politica. 

Nessuno nel Pd nato da pochi anni con la fusione fra i reduci del Pci, della sinistra democristiana e cespugli laici, ebbe il coraggio civile, politico e umano di seguire il Capo dello Stato. Figuriamoci se si può attendere qualche sorpresa adesso che il Pd è finito nelle mani, o fra le braccia, di una digiuna di storia politica come temo che sia Elly Schlein, sommersa nelle ombre, nelle vacuità e nei risentimenti di un’attualità che ossimoramente – da ossimoro-  vive solo alimentando il peggio del passato. E facendolo, per giunta, in ossequio formale, anzi in difesa di una Costituzione evidentemente sotto minaccia, la cui norma più cogente e attuale, appunto, sarebbe la dodicesima delle diciotto disposizioni transitorie. In essa è scritto che “è vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”. 

Sotto quella  “qualsiasi forma” si riesce a vedere o intravvedere tutto: dal braccio alzato di qualche cretino in piazza alle sgrammaticature storiche del presidente del Senato Ignazio La Russa parlando dell’attentato partigiano di via Rasella e della odiosa strage ritorsiva delle Fosse Ardeatine. Si arriva persino alla giovane presidente del Consiglio Giorgia Meloni, nata nel 1977 ma afflitta  -secondo il manifesto di qualche giorno fa- da  “mal d’Africa” per avere messo piede festosamente ad Addis Abeba. Dalla quale -ha ricordato il quotidiano ancora dichiaratamente e orgogliosamente comunista- il maresciallo Pietro Badoglio nel 1936 aveva annunciato telegraficamente a Benito Mussolini la conquista dopo 7 anni di guerra coloniale. 

Neppure nei momenti, volenti o nolenti, consapevoli o non, più imitativi dell’esperienza craxiana di modernizzazione della sinistra, che furono quelli di Matteo Renzi alla guida del Pd e del governo, la sinistra osò porsi il problema di una rivalutazione del leader socialista, o di un più sereno esame del suo lascito storico. Lo stesso Renzi tenne a dire, quasi per scusarsi di ripercorrerne un pò la strada riformatrice, di preferire alla memoria di Craxi quella opposta di Enrico Berlinguer. Che dell’astio per il leader socialista era per un ceto verso persino morto, secondo l’onesto ricordo dei fatti e degli uomini contenuto in un libro autobiografico dell’ex o post-comunista Piero Fassino, come preferite. 

Eppure Bobo Craxi -il mio caro amico Bobo, ripeto- non ha gradito, navigando in internet, che la sorella abbia ricordato il fenomeno dei voti dei socialisti al centrodestra e la sua personale, per  niente imbarazzata, anzi orgogliosa partecipazione a ciò che la sinistra ha prodotto di paradossale con i suoi errori nello scenario politico italiano. Egli, come tanti altri amici, del resto, per esempio Ugo Intini, ancora insegue la speranza, il sogno, l’illusione -chiamatela come volete- che nel socialismo autonomo e riformista di Bettino Craxi possa riconoscersi o ritrovarsi  prima o poi una certa sinistra pasticciona e astiosa che non a caso è finita all’opposizione. E riesce a contestare persino il carattere ormai emergenziale di un fenomeno come quello dell’immigrazione che non il governo di turno  a Roma, ma l’Italia è costretta a fronteggiare senza l’adeguata solidarietà dell’Unione Europea. Lo ha appena riconosciuto in una rammaricata intervista al Corriere della Sera il presidente del Partito Popolare Europeo, e capogruppo al Parlamento di Strasburgo, Manfred Weber. 

Che facciamo? Mettiamo adesso anche il Ppe nella consorteria internazionale, chiamiamola così, dei violatori reali o potenziali della già ricordata dodicesima disposizione transitoria della Costituzione italiana? Mettiamo il fez fascista e gli stivaloni agli eredi non di Hitler ma di Konrad Adenauer, di Helmut Kohl e dell’ancor viva Angela Merkel? Via, cerchiamo di essere seri. 

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it il 22 aprile

L’assist dei popolari europei alla Meloni sul fronte rovente dell’immigrazione

Le due notizie, quasi appaiate sulla prima pagina del Corriere della Sera, sono certamente diverse ma politicamente complementari. Una è il passaggio di Silvio Berlusconi dalla terapia intensiva a un reparto ordinario dell’ospedale milanese dove migliora e prepara il ritorno al comando, se mai lo ha davvero abbandonato o attenuato, del suo partito appena avviato verso rapporti più stretti e distensivi con l’alleata Giorgia Meloni. L’altra notizia è un’intervista del presidente del Partito Popolare Europeo Manfred Weber, e capogruppo al Parlamento di Strasburgo, di forte sostegno alla stessa Meloni e al suo governo sul terreno più contestato dalle opposizioni in Italia, ma anche da altri paesi nell’Unione. Che è naturalmente quello dell’immigrazione, specie dopo la proclamazione dello stato di emergenza, la nomina di un commissario -Valerio Valenti- e la rivolta, promossa neppure tanto dietro le quinte dal Pd di Elly Schlein, delle regioni e dei Comuni amministrati dalla sinistra. Da cui il governo è minacciato di boicottaggio nella politica restrittiva  dei permessi ed espansiva invece nella creazione di centri di raccolta per il rimpatrio dei clandestini non accoglibili. 

Di Weber, le cui foto assieme a Berlusconi sono ormai d’archivio più che altro, l’’intervistatrice Francesca Basso ha ricordato che “da mesi si sta spendendo in prima persona per l’alleanza guidata da Giorgia Meloni”. Di cui condivide notoriamente il progetto di rovesciare nell’Unione Europea i rapporti di forza e di collaborazione, sostituendo i conservatori ai socialdemocratici nelle scelte preferenziali del Partito Popolare. 

Espressione delle vecchie preferenze dei popolari per la sinistra è la Commissione Europea di Bruxelles presieduta dalla tedesca Ursula von der Leyen, collega di partito di Weber. Che non per questo si è risparmiato di criticarne la lentezza e le incertezze sulla strada di una piena assunzione delle responsabilità comunitarie per fronteggiare il fenomeno di una immigrazione troppo vasta per essere lasciata sulle sole o prevalenti spalle dell’Italia per via delle sue frontiere marittime, e perciò più esposte. Un fenomeno la cui emergenza è negata dalla sinistra italiana come la destra all’opposizione negava a suo tempo quella del Covid.

“A livello europeo -ha denunciato Weber- la solidarietà non funziona. Ringrazio il governo italiano per il modo in cui accoglie i migranti e cerca di salvarli e aiutarli”, altro che lasciarli morire in mare o boicottarne i soccorsi, come grida il Pd della Schlein e affini. “Il governo tedesco e francese, ma anche gli altri, non possono stare a guardare. Devono portare volontariamente i migranti con un diritto di asilo sul loro territorio”, ha detto Weber rinfacciando peraltro al suo stesso Paese i sei miliardi di euro spesi a favore della Turchia per farle contenere il traffico di migranti e i soldi che si stentano a trovare per aiutare, nella stessa direzione, la Tunisia. 

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La caccia alla foto che riscriverebbe la storia politica di Berlusconi

Di solito la caccia si fa a un latitante, umano o animale che sia, come l’orsa Jj4 che ha ucciso  di nuovo nel Trentino dopo essere scampata alla pena di morte ripristinata apposta per lei ma bocciata da un tribunale amministrativo in una storia che francamente poteva accadere solo nell’Italia dei paradossi. Dove viviamo in un intreccio continuo di opera e operetta, di reale e irreale, di lacrime e risate. 

Da qualche tempo, ma lo si è appreso solo da qualche giorno, non so quante decine o centinaia di uomini e donne dell’ordine e di inquirenti stanno  dando la caccia ad una foto segnalata alla magistratura da Massimo Giletti dopo averla vista nelle mani di un frequentatore quanto meno di mafiosi, Salvatore Baiardo. Che lo stesso Giletti  ha ritenuto di cercare a sua volta e di intervistare anche nello studio televisivo de la 7 che l’editore Urbano Cairo ha appena chiuso per prudenza.

La foto, che Giletti non ha potuto neppure toccare nei pochi minuti in cui gli è stata esposta, e forse anche promessa se avesse saputo o voluto guadagnarsela con tutti i mezzi consentiti e non,,  avrebbe ritratto nel lontano 1992, forse per motivi di estorsione, Silvio Berlusconi a un tavolino con un generale noto, forse anche troppo, alle cronache giudiziario, Francesco Delfino, e a un mafioso del calibro di Giuseppe Graviano, soprannominato  sicilianamnte “Martidduzzu”, da Madre Natura notoriamente dispensatrice insindacabile di vita e di morte. Che fu arrestato nel 1994 a Milano in tempo  per non organizzare o eseguire altre stragi dopo quelle già intestategli dalla magistratura condannandolo all’ergastolo. 

In mancanza ancora di questa foto se davvero esistente, visto che lo stesso Baiardo ha smentito Giletti parlandone con i magistrati, Marco Travaglio sulla prima pagina del Fatto Quotidiano di ieri ha messo insieme Berlusconi, Delfino e Graviano in un  fotomontaggio su sfondo azzurro. E sotto questo titolo da strillo: “Caccia alla foto di B. con Graviano e Delfino”. Cosi, tanto per fare sognare chi insegue fuori e dentro i tribunali la storia di un Berlusconi “fruitore finale” e politico  delle stragi di mafia come delle prostitute che gli offriva un amico, secondo una formula usata dal compianto avvocato Niccolò Ghedini. 

Ci ho pensato su 24 ore prima di segnalarvi questo modo di fare giornalismo, o scuppettare,  in quello che è il cosiddetto e vergognoso circuito mediatico-giudiziario giustamente lamentato dal Giornale dei Berlusconi. Sono stato trattenuto dal rispetto per una professione scelta a costo di litigare a suo tempo con mio padre, che si aspettava altro da me. E ho deciso che proprio questo rispetto impone di denunciare quello che considero un giornalismo solo presunto, peraltro dimostrato dal riduttivo ritorno oggi dello stesso Fatto sulla vicenda con questo titolino, non più titolone: “Baiardo, il boss e B.: gioco delle 3 carte da 28 anni”. Che non sono pochi. Sono anzi troppi per meritare tanta attenzione, sia pure a giorni alterni.

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