La sinistra glamour di Elly Schlein sbertucciata da Paolo Mieli

Sarà per l’età o per lo stordimento procuratomi dalla edizione numero 78 della festa della Liberazione, obbligatoriamente con la maiuscola e da non confondere con la Libertà preferita dal centrodestra, o dalla destra-centro, ho dovuto rileggere due volte l’editoriale odierno del mio caro amico Paolo Mieli sul Corriere della Sera. 

Due volte, ripeto: prima per capire  se, scrivendo di “dialogo e piroette a sinistra”, Paolo avesse voluto più ragionare che scherzare, con una ironia da storico disincantato, e poi per capire se, accertato l’aspetto più sarcastico che serio del suo lungo articolo, avesse voluto prendere per i fondelli, diciamo così, più il Pd che lui abitualmente vota o il MoVimento 5 Stelle del camaleontico Giuseppe Conte. Di cui anche Piero Sansonetti ha avvertito o denunciato oggi sul Riformista un nuovo approccio a Giorgia Meloni, pur nel dissenso sugli aiuti all’Ucraina aggredita dalla Russia. 

“A due mesi dalle primarie che elevarono Elly Schlein al vertice del Pd -è l’incipit dell’editoriale di  Mieli- si può tracciare un bilancio più che positivo….Nei sondaggi il partito è tornato a collocarsi stabilmente sopra il 20 per cento e ha lasciato il M5S dietro di cinque punti. La nuova segretaria si mostra assai abile nel rintuzzare la maggioranza, producendo ogni giorno polemiche nuove di zecca. Talvolta anche due o tre in un’unica soluzione”. Effetto finale: “L’attuale sinistra appare destrutturata come mai lo è stata nella sua lunga storia. Ed è probabilmente questa circostanza che -nelle rare occasioni in cui è costretta a rispondere alle domande in pubblico- fa scivolare Schlein nei gorghi di nebbiose fumisterie che le consentono di affrontare in qualche modo l’imbarazzante situazione in cui viene a trovarsi chi deve pronunciare dei chiari sì o dei netti no. Cosa per lei al momento impossibile”. 

Non a caso, del resto, la Schlein ha preferito  rilasciare una delle sue prime interviste, se non la prima in assoluto vantata da chi l’ha ospitata, alla rivista glamour “Vogue”, con tanto di servizio fotografico appropriato. Ma pur in quella posa glamour, ripeto, la Schlein non potrà fingere ancora a lungo di ignorare le partenze dal suo Pd: prima Giuseppe Fioroni, poi Andrea Marcucci, l’altro ieri il senatore Enrico Borghi. Che è passato, o è tornato, a Matteo Renzi lasciando il Pd senza rappresentanza nel Copasir, l’importante comitato parlamentare che vigila sui servizi segreti, e riducendo in braghe di tela in quel che resta del cosiddetto terzo polo Carlo Calenda. Il quale, se la rottura con Renzi dovesse consumarsi del tutto, con i suoi quattro senatori soltanto sarebbe costretto dal regolamento di Palazzo Madama a confluire nel gruppo misto a parole ma di fatto della sinistra verde e rossa da lui considerata come il diavolo nell’acqua santa.

Renzi invece con i suoi sei senatori, grazie appunto a Borghi, potrebbe disporre “sadicamente”di un suo gruppo parlamentare, come ha infierito sul Foglio Salvatore Merlo.  

L’avarizia politica di Fini con la Meloni: bene nella sostanza, male nel lessico

Incalzato da Roberto Gressi sul Corriere della Sera dopo le “riflessioni” affidate da Gorgia Meloni allo stesso giornale per spiegare la posizione sua personale e del proprio partito dopo le accuse di reticenza, quanto meno, rivoltele in vista della festa di Liberazione del 25 aprile, Gianfranco Fini non ha mai avvertito il bisogno di sbottare, come umanamente forse si aspettava la presidente del Consiglio, per il tentativo di contrapporlo  ancora alla sua ex enfant prodige. Ch’egli ai tempi d’oro volle vice presidente della Camera e poi ministra con Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi. 

Non solo Fini non è sbottato ma, quasi stressato,  ha finito -nomen omen- per accogliere o soddisfare l’attesa, l’interesse, chiamatelo come volete, dell’intervistatore di marcare una differenza dalla premier sul terreno di un antifascismo da chiamare per nome, magari rafforzato da qualche aggettivo. “Di certo -ha detto riferendosi a ciò che aveva dichiarato a Lucia Anunziata in televisione, a Rai 3, procurandosi critiche e anche improperi da quelle che una volta erano le sue parti- il mio invito a Molti a definirsi antifascista non è stato accolto alla lettera: nel lessico non cita l’antifascismo”. 

Questa risposta- che Fini ha voluto dare pur conoscendone la possibile strumentalizzazione da politico e da giornalista per quanto ormai in pensione, dove peraltro l’uno e l’altro non finiscono mai davvero quando accettano di parlare e di scrivere dell’attualità- ha un pò ridotto, depotenziato tutto il resto dell’intervista. In cui l’ex leader della destra italiana ha detto che il suo invito alla Meloni “è stato accolto nella sostanza, nei valori richiamati e nei riferimenti alla destra del dopoguerra”. “Al riguardo non avevo, per la considerazione che ho del presidente del Consiglio, alcun dubbio”, ha aggiunto l’intervistato smentendosi -nella sostanza, direi per rimanere al suo fraseggio- rispetto alle parole usate con l’Annunziata. Alla quale aveva detto, in particolare, di “comprendere” ma non condividere la ritrosia della premier a dichiararsi antifascista. 

Il suo vecchio maestro Giorgio Almirante, che lo preferì nella successione nonostante il parere diverso poi rivelato da “donna Assunta”, come veniva chiamata la consorte del leader missino, avrebbe detto meglio e più di Fini con quell’astuzia e prontezza di riflessi che lo distinguevano. E che giornalisti anche famosi schierati politicamente su fronti opposti o comunque diversi dal suo temevano disertandone le tribune televisive -o mandandovi altri di grado minore a rappresentare le loro testate- col pretesto di non volere deflettere da un antifascismo intransigente, sino alla discriminazione. Che sulle piazze diventava anche licenza alle aggressioni e persino alla morte. E’ stato appena celebrato in Parlamento il famoso eccidio di Primavalle,  a Roma, dove due figli del segretario di quartiere del Movimento Sociale arsero vivi nella loro abitazione per un incendio appiccato da militanti di sinistra riusciti a farla franca, non certo da soli. 

Fra i meriti riconosciuti alla Meloni nelle riflessioni affidate al Corriere della Sera Fini ha ricordato come un inedito nella storia della destra anche il richiamo al leader storico del comunismo italiano, Palmiro Togliatti, per l’amnistia voluta come ministro della Giustizia a favore dei fascisti dopo la Liberazione. Che per lui doveva fare rima il più rapidamente possibile con pacificazione. 

Giuliano Ferrara, che Bettino Craxi amichevolmente mi diceva “cresciuto sulle ginocchia di Togliatti”, del quale la madre era stata segretaria, ha colto bene, e più esplicitamente di Fini, sul Foglio l’importanza del richiamo della Meloni. “E’ una notazione storica significativa e intelligente, in armonia con quanto ho appreso nella mia formazione in una famiglia di resistenti comunisti e togliattiani, in conflitto con la vulgata resistenziale degli epigoni dell’azionismo politico e culturale, una componente minoritaria ma nobile e tenace della Resistenza convinta che la guerra di Liberazione dovesse mettere capo a una svolta radicale e moralmente rigeneratrice, dalle fondamenta, della storia italiana”, ha scritto Giuliano. 

Politicamente ancora più incisiva, e soprattutto attuale, mi sembra la conclusione del ragionamento del fondatore del Foglio. “Con l’aiuto -egli ha scritto- di un testimone a sorpresa nella sua penna, Togliatti, e della sua posizione resistenziale sulla guerra oggi in Ucraina, il capo della prima maggioranza e del primo governo di destra democratica della Repubblica argomenta le sue tesi a favore della riconciliazione nel segno inclusivo per tutti della libertà. Non è poco come risultato ultimo e come vittoria nazionale di un 25 aprile privato della sua componente retorica, restituito al suo vero significato politico a quasi ottant’anni da quel giorno fatale”. 

Resta ora da vedere se a Fini, per tornare a lui, con quel pur riduttivamente  “sostanziale” riconoscimento fatto alla Meloni di avere risposto alle sue sollecitazioni antifasciste alla vigilia del 25 aprile, riuscirà di  sottrarsi alla nebbia politica in cui si infilò nel 2010 rompendo con Berlusconi pur col piombo nelle ali costituito dalla famosa vicenda, ora anche giudiziaria, di una casa del suo partito, a Montecarlo, lasciata inconsapevolmente nelle mani speculative della sua nuova famiglia. Lui ha assicurato nell’intervista al Corriere di non avere ambizioni o progetti politici, declassati a “sciocchezze” attribuitegli da altri. Ma la carne, si sa, è umanamente debole. 

Pubblicato sul Dubbio

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